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Il giardino di cemento

Il giardino di cemento

Julie, Jack, Sue e Tom sono quattro fratelli orfani e soli, in un casa troppo grande, troppo anonima per essere notata dai vicini grattacieli. È Jack che racconta la storia: lui, un ragazzino di quattordici - quindici anni, nel pieno delle trasgressioni adolescenziali. Tutto proteso all’osservazione edonica, ma disinteressata, di se stesso, alla ricerca di quei piaceri pruriginosi che il corpo elargisce in un’età di accelerazioni che preludono al decollo. Jack prova una morbosa attrazione verso l’ammaliante Julie, la sorella maggiore dallo ”sguardo profondo di qualche animale raro e selvatico”, complice di giochi segreti che solleticano l’epidermide e fanno vibrare più forte le corde della curiosità verso quei corpi non più acerbi. Sue è la terza figlia; attraverso i contorni sfumati di un volto poco attraente, incolore, quasi invisibile, come le sue ciglia, osserva gli eventi con un’ingenuità che profuma di pulito. Tom è il più piccolo, l’unico bambino nel gruppo di adolescenti. Sempre in cerca di attenzioni e di calore umano, si traveste da femmina, si lascia acconciare e gioca ad impersonare i ruoli delle persone che lo circondano. Il giardino di cemento è l’impresa, mai ultimata, in cui decide di lanciarsi il padre di Jack: un giardino “costruito, più che coltivato”, una distesa grigia e spoglia, un disegno di finti vialetti stretti tanto da far perdere l’equilibrio percorrendoli. Jack decide di dare una mano al padre a costruire l’illusorio giardino pensile, ma a quell’uomo fragile, irascibile, ossessivo e con il cuore malato non risparmia gli sforzi proibiti: un’ischemia letale lascia il padre riverso a faccia in giù sul cemento appena steso. Di lì a poco, anche la madre dei ragazzi muore, dopo un passaggio breve e per nulla incisivo sulle vite di quegli adolescenti. La decisione di nascondere il corpo inanimato della madre dentro un baule, coprendolo con una colata di cemento, diventa un “fatto” prima ancora di essere concepita dalle coscienze impaurite dei ragazzi: nessuno deve sapere che sono rimasti soli al mondo, senza genitori, né parenti e quella di far sparire i resti della defunta mamma sembra l’unica soluzione. Ma nella casa, arriva Derek, il fidanzato di Julie…

Con sguardo lucido e spietato, Ian McEwan osserva e descrive la vita desolata di una famiglia che, in un percorso iperbolico e mai scontato, non può fare altro che consumarsi, fino all’epilogo liberatorio e chiarificatore. Trasuda solitudine dalle pareti della casa, snobbata dai grattacieli che la circondano, in un‘indefinita periferia londinese; il caldo torrido avvolge e fiacca i personaggi; il cemento, attraverso le sue crepe, si ostina a lasciare intravedere ciò che al suo interno si cela e riempie l’atmosfera di cupa angoscia. Il tempo è sospeso e i ragazzi sono come sprofondati in un sonno/veglia, che rende inconsapevoli i pensieri, le parole e le azioni. Julie, Jack, Sue e Tom, rimasti orfani, sembra non si accorgano neanche di avere ricostituito tra loro un surrogato di comunità familiare, in cui i due figli maggiori giocano a fare papà e mamma e come tali vengono rifratti attraverso una lente particolare: è quella rappresentata dai giochi di Tom, il più piccolo – il più strano forse – ma anche il più sincero. La mancanza di consapevolezza, l’incapacità di discriminare ciò che è bene da ciò che è male, perché assenti sono i punti di riferimento, sospende il giudizio del lettore su ciò che nella casa di Jack viene compiuto, immaginato, desiderato. La profondità introspettiva si sposa con una scrittura fluida e con rapidi cambi di scena che, talvolta, disorientano: è il McEwan abile scandagliatore di Bambini nel tempo. La narrazione, come ne L’inventore di sogni non è mai appesantita da lunghe pagine descrittive, ma procede veloce; più veloce laddove accade quel che non vorresti, ma in fondo, sai che succederà, eppure ancora speri e credi che un lieto fine sia possibile. Ma questo è Ian McEwan, bellezza, e non Charles Perrault!