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Il gioco permanente con i limiti

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“Alla fine e dopo tutto, che cosa c’è veramente di nuovo in questa pandemia-panico? Vale veramente la pena di riflettere, prendendola sul serio?”. Ecco, le premesse non sono promettenti: la pandemia non è niente di già visto ed è seria. Ne è convinto chi è capace di restare sordo a ogni facile complotto e tutti noi calorosamente grati alla scienza e fiduciosi nei progressi della medicina. Ma armandoci di coraggio, sentiamole le ragioni di chi vuole ancora riflette, prima di prenderla sul serio. La prima ragione riguarda le cause: l’ipotesi di un virus scappato dal laboratorio e collegato alla tecnologia di telecomunicazione 5G preoccuperebbero molta gente (chi? quanti?), che bisogna ascoltare, al di là di quel che viene comunicato dai media e dai governi. La seconda ragione è che si sia scatenata una pandemia di panico, inteso come modalità della politica e della democrazia occidentali. La terza ragione è, per sommi capi, una critica fondata: da parecchi mesi, l’educazione e la “socievolezza” sono sacrificate dalla didattica a distanza e dal mantenimento delle relazioni soprattutto attraverso il digitale. I capitalisti della rete e dei social crescono e moltiplicano guadagni e consensi, è vero. Insomma, la realtà è “irreale, completamente irreale”, falsata dal potere e da media. Soluzione? La conclusione è definita “semplice”: “L’economia non è sostenibile, e dobbiamo liberarcene. Deve sparire”. Ma come? Non con una rivoluzione ma con un fantomatico “disfacimento sul modello del collasso del comunismo”…

Di cosa stiamo parlando? Di auspici o di soluzioni praticabili, di idee sostenibili? A giochi ancora aperti, con l’ennesima ondata di contagi, abbiamo a disposizione miriadi di dati che si prestano a interpretazioni e correlazioni strumentali, spesso pericolose. E molti vi si appigliano, per i motivi più disparati. L’autore di quest’opera, il sociologo ungherese Arpad Szakolczai, non è da annoverare fra i negazionisti: interpreta il dissenso di chi non crede allo storytelling pandemico e di chi denuncia le limitazioni alla libertà imposte con le norme sanitarie. Viene meno al suo dovere di accademico, però, ignorando dati e situazioni oggettive e proponendo ricette che rasentano l’utopia. Potremmo giustificarlo spiegando che i saggi sono stati scritti proprio nel mezzo della fase acuta della pandemia, prima delle vaccinazioni di massa, durante la quarantena più dura e con le notizie dagli ospedali simili a quelle di un fronte di guerra. Ma può bastare? Szakolczai non è l’unico intellettuale ad aver avanzato proposte di “rinnovamento” degli stili di vita e dei sistemi politici o economici; e, in fondo, è quello che speravamo un po’ tutti, dopo aver preso consapevolezza del danno climatico, delle disuguaglianze sociali, delle risorse mal distribuite che, proprio durante l’emergenza sanitaria, sono emerse anche brutalmente. Cercare una strada per il benessere economico globale, forse persino un’alternativa ai sistemi politici attuali, porta però questo autore a peccare di ingenuità. Chiedersi come mai le meritorie ed eccellenti produzioni a km zero della provincia italiana non abbiano ancora sbaragliato McDonald’s o Starbucks è ingenuo. Proporre di abolire il diritto di voto ai pensionati e agli studenti, poi, è incommentabile.