
Il cottage inglese che hanno preso in affitto è il più bello nel catalogo che l’azienda di Albo ha loro fornito. È arredato ed evoca un’atmosfera calda e accogliente. Lei si è innamorata subito dei bovindi, della porta di legno, del giardinetto davanti e delle siepi di bosso che separano la loro abitazione dai vicini. Sembra davvero una di quelle case che i bambini disegnano, quelle che si sognano ad occhi aperti. L’agente immobiliare che li accoglie parla loro timidamente, ma lei e Albo non capiscono una parola. Allora lui consegna loro le chiavi e si volatilizza. All’interno, l’abitazione è un vero e proprio caos cromatico: sulle pareti vortici di peonie paiono sbucare dal fogliame, mentre sul pavimento c’è una moquette color terriccio sulla quale si intravedono disegni stilizzati. Sul soffitto, poi, la carta da parati bianca lascia intravedere ciuffi di primule, mentre rosoni in polistirolo evidenziano i lampadari di ottone e vetro. Occorreranno molta pazienza e molta energia per rendere accettabile la nuova dimora, ma non le mancano né le forze né il tempo, ora che è tornata ad essere a tutti gli effetti una casalinga. Albo invece si fa assorbire fin da subito dalle nuove responsabilità legate al lavoro: deve migliorare il suo inglese, allacciare buoni rapporti con i colleghi anglosassoni e, soprattutto, decifrare i giochi di potere della nuova azienda così da diventarne parte importante. Così ogni giorno, mentre Albo è in ufficio e il piccolo Luca fa il suo sonnellino, lei si dedica alla bonifica del loro nido: elimina la polvere e l’umidità dai mobili e cerca di far tornare la moquette all’antico splendore. Alla sera, poi, quando il marito rientra, vorrebbe mostrargli i miracoli che è riuscita a compiere. Ma l’uomo, che dopo il lavoro ha cominciato ad andare in palestra per scaricare lo stress accumulato durante il giorno, non fa altro che investirla raccontando delle riunioni cui ha partecipato e degli obiettivi che intende raggiungere...
Pungente e irriverente, la storia di Patrizia Serra - cagliaritana ma milanese d’adozione, giornalista professionista al suo esordio come romanziera - è un interessante viaggio verso l’emancipazione da quello che viene definito dalla protagonista “gene della servitù”. Una donna come molte, con desideri e sogni, che vengono a poco a poco ridimensionati e infine castrati per dedicarsi esclusivamente alle esigenze di un marito votato alla carriera, un uomo per il quale il lavoro occupa il gradino più alto nella graduatoria delle priorità personali e al quale mai viene in mente di considerare le rinunce che la compagna ha dovuto operare pur di assecondare il suo stile di vita e la sua ricerca del ruolo professionale più prestigioso. Una donna che, figlio al seguito, deve adattarsi alla vita lontano da casa, in paesi con mentalità e stili di vita diversi dai propri, solo ed esclusivamente in nome del prestigio del marito, che - personaggio davvero poco simpatico all’interno della narrazione - non perde occasione per umiliare la compagna di vita, evidenziandone difetti o mancanze, peraltro opinabili. Racconti venati d’umorismo che nascondono tuttavia profonda amarezza da parte di chi non si sente valorizzato né gratificato; il profondo desiderio di semplificare la vita del proprio compagno diventa un percorso a senso unico, fatto di accettazione, capacità di adattamento, sacrifici e rospi da ingoiare. Quando tuttavia la giovane donna realizza di aver toccato il fondo e di esser pronta a ribellarsi ad una sorta di imposizione legata al tipo di educazione ricevuta - quella secondo la quale la donna è tale se si pone in condizione di sudditanza nei confronti del suo uomo - ecco che riesce a ritagliarsi il proprio ruolo nel mondo, un ruolo nel quale la dignità e il rispetto innanzi tutto verso se stessi diventano pietra miliare su cui fondare ogni azione. Una storia interessante - resa in maniera semplice, utilizzando un linguaggio scorrevole e facilmente fruibile - che evidenzia come la sopraffazione non si nutra soltanto di violenze eclatanti o di voci urlate, ma trovi un sentiero ben segnato anche e soprattutto attraverso toni pacati e apparentemente civili. Indifferenza e silenzio sono spesso la forma più subdola di sopraffazione, quella che si maschera da gentilezza ed è capace di lasciare dietro di sé devastazione e dolore.