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Il grande ignoto - Dietro la tenda - L’isola

Il grande ignoto - Dietro la tenda - L’isola

Blaisdell ha appena finito di cenare in un ristorantino di South Street in compagnia del suo amico Jenkins, un detective molto indaffarato. Si sono incontrati per caso, e il suo amico è sempre il solito: si sbottona poco e lo congeda in fretta. Nel tornare verso casa, Blaisdell percorre i vicoli sinistri del quartiere, attorniato da varia mercanzia esposta fuori dai negozi, e da volti esotici che, nonostante la povertà e la sciatteria evidenti, esercitano sempre un certo fascino su di lui. Ebrei, italiani, neri. Normalmente riesce a compatire chi è meno fortunato di lui, ma quella sera quei volti trasandati gli paiono spaventosi, fino quasi a scorgervi una certa malvagità; una sensazione di paura mista a pericolo lo attanaglia, senza riuscire ad opporvisi. Forse dovrebbe fermarsi e riposare un poco, prima di accasciarsi a terra e lasciarsi sopraffare. L’insegna gli appare all’improvviso, intrigante, scritta in rosso: VIENI A CONOSCERE IL GRANDE IGNOTO. Chissà quale interessante spettacolo viene pubblicizzato. La curiosità lo spinge a salire la rampa di scale, e girare la maniglia della porta posta sotto l’insegna. L’interno è sudicio, maleodorante, buio. Sulle prime, Blaisdell è convinto di avere sbagliato ingresso. Ma ecco comparire dal nulla un uomo alto e magro, con occhi nerissimi e capelli candidi... Sono le nove in punto quando il giovane Quentin suona alla porta del suo amico Santallos. Il padrone di casa apre con fare circospetto: la casa è piuttosto isolata, e ai ladri farebbe proprio gola il malloppo custodito lì dentro. Lapidi e lacrimatoi, ironizza Quentin, riferito ai tesori copti ed egiziani accumulati da Santallos e a lui tanto cari, sui quali spicca il sarcofago della Principessa di Naam, detta Tanezem l’Osiride: un tempo una creatura attraente dalle labbra rosse e umide e ora, solo una mummia avvizzita. Quentin chiede a Santallos di Beatrice, sua moglie. Ma Bee non è in casa, è fuori per un viaggio. Con grande sorpresa di Quentin - il quale sembra molto deluso dell’assenza di Bee - Santallos lo invita a continuare la discussione proprio nel boudoir della donna, un ambiente molto più caldo e confortevole rispetto al resto della casa. Fatta eccezione per uno spiffero, così forte da fare increspare la tenda di velour posta al lato opposto della stanza, senza tuttavia svelare ciò che si trova dietro. Quentin si accomoda sulla fragile sedia di fronte alla toeletta di Bee. Sembra perfettamente a proprio agio lì dentro; forse troppo, a parere di Santallos... Di fronte a un buon tè e ad un piatto colmo di macaroon, la lingua della vecchia derelitta si scioglie come per magia. Il volto della donna è severo, abbronzato, irrigidito dalla fatica. Impossibile darle un’età, ma si vede che è una veterana, una marinaia autentica sopravvissuta all’era delle turbine e dei motori a olio. Ha storie fantastiche da narrare, in particolare riguardo al suo ultimo viaggio a bordo dello Shouter, salpato da Frisco con un carico di sottane e affondato qualche giorno dopo, vittima del mare infuriato. Nessuno si salvò oltre lei, né le sue compagne di viaggio, né la ormai decrepita capitana Mary. Galleggiando per tre giorni sopra una borsa termica vuota, la donna approdò su un’isola tanto bella, rigogliosa e pacifica da sentirsi come a casa propria. Tutto sembrava dire: mettiti comoda, rilassati, goditela. Almeno, fino al ritrovamento di una tavola di legno sulla quale, un certo Nelson Smith, aveva inciso, a lettere grossolane, uno spaventoso ammonimento...

Gertrude Barrows Bennett (Minnesota, 1883-California, 1948) fa parte, purtroppo, di quella schiera di autrici quasi del tutto dimenticate. Eppure, Howard Phillips Lovecraft fu un suo grande estimatore, e negli Stati Uniti fu considerata pioniera non solo del genere dark fantasy, ma anche di quello distopico/fantascientifico. Col suo Le teste del cerbero, pubblicato a puntate nel 1919 su “Thrill book” - rivista pulp semiclandestina che prometteva di occuparsi di storie strane, bizzarre e occulte - la letteratura si misurò per la prima volta con il tema degli universi paralleli: il romanzo narra infatti di tre amici che, inalata una polvere grigiastra fuoriuscita da un antico manufatto, vengono catapultati dapprima in un mondo fantastico, e poi in una Filadelfia futuristica, dominata nel 2118 da un regime dittatoriale. Scrittrice non per professione, ma piuttosto per far fronte alle necessità economiche, la Bennett ha sempre pubblicato i suoi lavori (in tutto sei romanzi e parecchi racconti) con lo pseudonimo di Francis Steven; sul motivo della scelta di uno pseudonimo maschile riferisce Robert Weinberg nel suo A Forgotten Mistress of Fantasy (1984): “La scelta di adottare lo pseudonimo Francis Stevens fu probabilmente dovuto al tipo di storie che l’autrice scriveva. [...] Erano gli uomini a scrivere quel genere di narrativa o, almeno, così sembrava a giudicare dai loro nomi. Fra essi, vi erano George Allen England, Abraham Merritt, Max Brand, Charles Stilson, Edgar Rice Burroughs e altri ancora. Non era insomma una compagnia dove avrebbe ben figurato il nome di una donna. Quindi, come molte colleghe prima e dopo di lei, Gertrud [...] si rese conto che era più facile cambiare nome che il tipo di narrativa che voleva scrivere”. Disinvolta e concisa, la scrittura della Bennett trae la sua potenza proprio dalla semplicità, dall’abilità di creare, in quattro mosse, quella tensione sottile che attraverso la pagina ti si deposita sotto la pelle e lì rimane, latente e insidiosa. Tre sono i racconti inseriti dalla casa editrice Urban Apnea in questa interessante raccolta: nei primi due, Il grande ignoto e Dietro la tenda, risulta chiaro il riferimento al lato oscuro dell’essere umano, alla facciata buona che si mostra al mondo mentre, in una dimensione capovolta, la malvagità corre a briglia sciolta, traducendosi in pensieri e azioni aberranti. Facile, forse troppo, attraversare il confine tra questo mondo e quell’altro: è sufficiente sottoporsi ad un esperimento, come fa l’impavido e curioso Blaisdell, o passare attraverso la dimensione onirica, come succede a Santallos. Altri, i temi trattati ne L’isola, nel quale ci si focalizza sul duplice rapporto uomo/natura e uomo/donna; la chiave di lettura di entrambi si mostra univoca, con la donna/natura posta in una posizione di superiorità, sensibile e prodiga di generosità verso l’uomo, il quale, da essere rozzo e volgare quale è, finisce inevitabilmente per insultarla, scatenandone l’ira funesta e l’allontanamento definitivo dalle sue grazie. “In quale campo la donna non è superiore a noi?” Riflette, umile e mesto il giovane interlocutore della derelitta marinaia. Estrema? Chissà. In ogni caso, decisamente sul pezzo: siamo davvero sicuri di voler dimenticare Gertrude Barrows Bennett?