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Il grande Paese

Il grande paese
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“In esecuzione dei poteri conferitile dal Congresso l’Amministrazione necessita e cercherà senza posa i migliori talenti che il Paese può dare. Il pubblico impiego offre oggi soddisfazioni grandi come mai prima nella nostra storia – stipendi non alti ma sufficienti per vivere (…). In vista della formazione di quei quadri vengono a noi da ogni parte dell’Unione uomini e donne capaci e coraggiosi”. Metà anni Trenta, Texas. Millard O. Carroll firma con una certa emozione l’ultima delle carte sulla scrivania e scherza con la sua segretaria, Louise. Nell’ultimo anno le cose non sono andate benissimo per la ditta, la Grande Depressione si fa ancora sentire: ciononostante il fatturato è sul milione e mezzo di dollari e Millard ne ha guadagnati circa 15.000, ma la cosa paradossale è che il prossimo anno ne guadagnerà poco più della metà. Non con la ditta, ma a Washington. Il Partito Democratico ha vinto le elezioni e il Presidente Franklin Delano Roosevelt lo vuole nel suo staff. E per accettare Carroll sta rinunciando alle sicurezze della sua vita in provincia. Parte domani in automobile con sua moglie Lucile. Il padre di lei – che anni prima ha dato la ditta in gestione a Millard scommettendo sulle sue qualità e vincendo la scommessa – non si è ancora rassegnato all’idea, gli pare una benemerita idiozia: “Quegli imbroglioni di politicanti di Washington quanto ti offrono?”. Millard sa benissimo che ci va a perdere denaro: “Ma non è questo il punto. Abbiamo degli obblighi verso il Paese”. Mentre fanno le valigie, Lucile convince il marito a prendere la fidata (e poco avvenente) Louise come segretaria anche a Washington. Lui avrebbe preferito “una bella bruna pratica dell’ambiente”, ma cede alla volontà della moglie. Le cose da fare in casa sono così tante che è già pomeriggio quando i due partono, sul sedile posteriore dorme tranquillo il cane Kerry Blue. Millard segue l’autostrada che conosce benissimo fino al ponte sul Fiume Rosso che segna il confine con l’Oklahoma, poi il paesaggio cambia bruscamente: strada piena di buche, infiniti campi di granturco., “qua e là una capanna dalle pareti grezze, non verniciate, si erge tra siepi alte contro l’azzurro, indistinto polverìo delle colline lontane”. Dopo qualche ora Millard e Lucile si fermano accanto a una piccola insegna che dice “Pesce fritto - oggi pescegatto fresco”. Dio buono, pensa lui, com’è carina sua moglie con il vestitino grigio e la camicetta nuova. Si siedono in riva al fiume, c’è un’aria bellissima. Un anziano con la pelle che sembra cuoio serve loro un piattone gigante di bocconi di pesce fritto, bollenti e squisiti. Negli occhi di lei passa un lampo azzurro: “Sai cos’è successo? Pensavamo di essere in viaggio per Washington, e adesso eccoci invece a fare una gita, semplicemente”…

Il Dos Passos del primo dopoguerra ha perso molta della sua furia anticapitalista. Il suo lavoro come corrispondente di guerra per “Life” dal Pacifico lo ha colpito profondamente: il coraggio delle truppe, l’organizzazione, le tecnologie avanzate, l’accoglienza delle popolazioni locali – spesso molto ostili ai giapponesi – hanno contribuito a far nascere in lui un certo orgoglio nazionale, un certo ottimismo per il futuro del mondo, per l’alba di quello che Henry Luce proprio in quegli anni definì “il secolo americano”, con gli Stati Uniti che – lasciata ormai alle spalle la Grande Depressione – sono in veemente ascesa. E malgrado nei mesi successivi gli orrori visti nell’Europa ridotta in macerie contribuiscano a smorzare il suo entusiasmo, è indubbio che Dos Passos cominci a guardare con più interesse e indulgenza alle dinamiche dell’economia capitalista. Si sente ormai più vicino ai Repubblicani, malgrado sia stato un convinto elettore del democratico Roosevelt per due mandati (il secondo e il terzo), e la parabola del New Deal lo convince sempre meno. Il processo culmina con la pubblicazione nel 1949 de Il grande Paese, che racconta un simile ripensamento: quello dei protagonisti Millard Carroll e Paul Graves, che passano dall’entusiasmo alla frustrazione e infine alla rassegnazione dopo aver accettato con convinzione di abbandonare le loro remunerative attività per “servire la Patria” al Dipartimento dell’Agricoltura rispondendo alla chiamata del Presidente Franklin Delano Roosevelt. L’ambiente della politica di Washington DC è dipinto né più né meno come una Gomorra: corruzione, intrighi, tradimenti, promiscuità, opportunismo, fancazzismo. Il New Deal secondo Dos Passos nasceva da bellissime premesse, ma gli ideali di partenza – e con essi il “grand design” dei Padri Fondatori che dà il titolo originale al romanzo – vengono traditi biecamente dai burocrati dello Stato federale. Un punto di vista senza dubbio tutt’altro che inedito e per certi versi conformista, la spia di un voltafaccia politico abbastanza imbarazzante che porterà l’autore dal socialismo al maccartismo in poco più di un decennio. Ma anche un romanzo scritto magnificamente, potente ed emozionante.