
Giocatori di baseball, banchieri, cowboy da rodeo, baritoni, baristi, bastardi, autori di best-seller, ciclisti, vescovi, quella della lista nera, borsaneristi, biondi, bombaroli, bolscevichi, boss, boxeur, bramini e chi più ne ha più ne metta: tutti lo chiamano Smitty. In realtà Smitty si chiama Word Smith ed è un famoso giornalista sportivo ormai in pensione che pur essendo bolso, collerico, miope, delicato d’intestino, anemico, artritico, diabetico, dispeptico, sclerotico e perennemente tormentato da dolori si assume la responsabilità di raccontare una storia che in pochi conoscono, la storia di una lega di baseball finita nel mirino di poteri forti e occulti e di una squadra costretta a girare per l’America in quanto ha affittato il proprio stadio al Dipartimento di Guerra degli Stati Uniti. Sullo sfondo di una guerra mondiale ancora lungi dal concludersi e con un nuovo nemico già pronto a rimpiazzare il nazismo, i giocatori dei Ruppert Mundy sono pronti a giocare la Patriot League…
Recentemente ripubblicato, Il grande romanzo americano è una delle prime opere scritte da Philip Roth, avendo visto per la prima volta la luce nel 1973. L’idea dell’autore di Newark è semplice e ricorda opere quali Il migliore di Bernard Malamud e Il gioco di Henry di Robert Coover: raccontare la storia a stelle e strisce attraverso il baseball, sport “all american” per antonomasia. Attraverso le vicende di una squadra immaginaria della Patriot League, il narratore preme l’acceleratore sulla dimensione comica e farsesca, consegnando al lettore un paesaggio variegato e rapsodico di personaggi ora buffi ora cinici, ma sempre sopra le righe. Tra le circa quattrocento pagine fanno capolino lanciatori che hanno cercato di uccidere l’arbitro, battitori perennemente ubriachi e dalla fedina penale discutibile e un complotto che non si capisce bene da quale parte di un mondo prossimo alla divisione provenga. Ascrivibile non solo cronologicamente ma anche stilisticamente alla prima produzione di Roth, Il grande romanzo americano è principalmente un lavoro sperimentale, in cui il linguaggio e l’iperbole della narrazione sono tenute in gran conto, mentre chi legge può trovarsi disorientato davanti a tali virtuosismi e calembour più adatti sicuramente a una lettura in lingua originale. Del Roth più maturo c’è la satira amara nei confronti di un’America preda del complottismo facile e dello spauracchio comunista, ma non ci troviamo sicuramente di fronte a un’opera di meditazione quanto a un divertissement serio – passatemi la contraddizione in termini – che rivela già un autore abile nel padroneggiare la propria debordante verve stilistica e immaginifica, stavolta declinata nel picconare il baseball, simbolo americano per eccellenza.