
A guidare il mondo complesso e sempre nuovo, dovrebbero esserci la politica e la scienza. Occorre cioè un lavoro spirituale, inteso nella concezione del sociologo Max Weber. Tra il 1917 e il 1919, Weber tenne due notevoli e sempre valide conferenze con l’obiettivo di rappresentare i progetti e le speranze per orientare e ispirare l’uomo nell’epoca moderna. Il titolo delle due prolusioni è Die geistige Arbeit als Beruf, cioè Il lavoro dello spirito come professione. Per superare le condizioni dei lavoratori del secolo precedente, l’alienazione, la mancanza di diritti, lo sfruttamento, l’intellettuale ebbe il coraggio - all’epoca - di esaltare il processo creativo e l’autonomia della creazione, e l’ambizione di introdurre il concetto di liberazione. Come può il lavoro spirituale diventare professione? Il riferimento, affascinante, è alla Kultur mitteleuropea, alle idee della borghesia nate con Goethe e proseguite con Thomas Mann a cavallo tra Ottocento e Novecento, e rafforzate dall’imprescindibile Nietzsche. Per Weber la borghesia avrebbe dovuto rispondere alla vocazione politica, mantenere le redini nonostante gli sfasci e le conseguenze della Grande Guerra, là dove la democrazia diventava terreno di conflitto. Affiora però un mare di delusioni. “Il processo di globalizzazione è tutto capitalistico e niente affatto borghese”; la democrazia rappresentativa è in crisi e in pochi riescono più a difenderla; il popolo invoca ciclicamente l’uomo forte. Alla delusione, Weber risponde con originalità e ci invita a cercare il politico autentico: colui che cerca di attualizzare i valori senza perdere di vista la vocazione, che non teme il professionismo ma lo utilizza per progettare, e che non teme, soprattutto, la responsabilità. Ma chi porterà a termine questa rivoluzione? Gli intellettuali? Come delimitare e/o fondere i confini di scienza e politica?
Occorre rivisitare criticamente, cioè con la filosofia, le parole pronunciate da Weber esattamente cento anni fa. Ed è l’occasione per tentare di rispondere ad altri grandi dilemmi che il passaggio dall’era industriale a quella tecnologica non ha risolto. L’intervento di Massimo Cacciari parte da quelle lezioni weberiane e si dipana in un saggio breve ma certamente non semplice, forse troppo arduo quando non si può contare su basi filosofiche. Del resto, il riferimento storico è ai valori della cultura mitteleuropea del secolo scorso, quando le idee erano condivise e variamente declinate in tutte le sfumature delle scienze umane. E, dunque, anche nella letteratura e nella neonata sociologia. Proprio lo sguardo del sociologo, di Weber, accorre per tenere a bada le illusioni e riportare lettori e pensatori alla realtà. Non si tratta di una realtà consolatoria né di istruzioni per l’uso limpide e accessibili, eppure il ragionamento è esaltante e potenzialmente contagioso. L’amarezza e il disincanto di Max Weber, resi con fervore da Cacciari, possono diventare una lezione di responsabilità e di autonomia per la nuova classe dirigente. “Il lavoro dello spirito”, essenzialmente, è consapevolezza, collaborazione, libertà, condivisione, energia. Proprio quando la società è rapidamente plasmata dai nuovi capitalisti dell’informazione e della rete, osservare con spirito critico le idee di un secolo fa non è esercizio inutile.