
1986, Helsinki. Il giovane e brillante glottologo finlandese Viljo Surunen e la sua compagna, la dolce maestra di musica Anneli Immonen, hanno una grande passione in comune – oltre a quella che provano l’uno per l’altra: sono entrambi ferventi attivisti di Amnesty International. Passano il tempo a scrivere vibranti lettere di protesta indirizzate ai più feroci dittatori del mondo: petizioni per la liberazione di prigionieri politici, appelli alla democrazia, richieste di abolizione della tortura. C’è un caso però che a Viljo e Anneli sta a cuore più di tutti: quello di Ramón López, un dissidente che sta marcendo da sette anni senza aver commesso alcun reato in una prigione di Stato del Morterey, un minuscolo Paese dell’America Centrale confinante con Honduras e Nicaragua, in cui “non passa giorno senza che i diritti umani vengano calpestati” e nel quale i colpi di stato militari si susseguono a ritmo continuo. Malgrado l’attivismo dei due finlandesi però Ramón continua a stare in prigione e nulla sembra destinato a cambiare: così Viljo si convince che l’unica soluzione è partire per il Morterey e verificare di persona se esistono le condizioni per la liberazione del prigioniero politico. Ottenuto il via libera di una preoccupatissima (ma fiera) Anneli, il glottologo scrive a Jacinto Marco Aurelio Càrdenas, il suo contatto nel Paese centroamericano, annunciando il suo prossimo arrivo. Ma occorre trovare prima i soldi per il viaggio: la banca dove Surunen tiene i suoi pochi risparmi gli rifiuta un prestito per una missione così rischiosa, così l’attivista si fa furbo e ad un’altra banca dice di voler fare una bella vacanza all’estero. Ottenuti i soldi per i biglietti aerei, Surunen parte per il suo lungo viaggio. Dovrà passare per URSS e Cuba e questo lo preoccupa non poco, perché il regime del Morterey è ferocemente anticomunista e di certo alla dogana non vedranno di buon occhio quei timbri sul suo passaporto…
Non dubitiamo della passione di Arto Paasilinna per la questione dei diritti civili né del suo impegno politico, che del resto traspare da più di un suo libro, ma sin dalle primissime pagine appare ovvio che in questo Il liberatore dei popoli oppressi l’intento dello scrittore finlandese sia eminentemente satirico. L’immaginario, la cultura e – perdonatemi il termine – il bestiario di quello che oggi chiameremmo il mondo delle ONG e dei loro militanti (che negli anni ’80 era un fenomeno che solo da circa un decennio aveva raggiunto una certa rilevanza sociale e – perdonatemi anche questo, di termine – aveva iniziato ad “andare di moda”) sono il bersaglio degli strali dell’ironia di Paasilinna paradossalmente più dei grotteschi regimi autoritari descritti nel romanzo. L’idealismo à la Candide del glottologo Viljo Surunen lo spinge ad attraversare il mondo fino a una dittatura centroamericana di quelle tenute in piedi dalla CIA dei bei tempi, colorate, fracassone e sanguinarie (e successivamente – per par condicio, diremmo oggi – a uno staterello del Blocco delll’Est, significativamente battezzato Delatoslavia) e qui a tramare contro il regime come se la patente di attivista politico fosse una corazza di invulnerabilità, senza paura né coscienza. Paasilinna ci ributta nel mondo che fu, diviso soltanto in due blocchi l’uno contro l’altro armato, un mondo in cui ogni Stato era costretto a militare, sebbene con declinazioni diverse, in uno dei due campi: o stavi con gli USA o stavi con l’URSS, punto. Meglio? Peggio? Il crollo del 1989 era ancora di là da venire e quindi lo scrittore finlandese non si/ci interroga su questo, si limita a trascinarci in una picaresca avventura a metà tra spionaggio e commedia che piacerà soprattutto ai lettori di mezza età. Per i millennials praticamente è un fantasy.