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Il marchio

Svizzera, 1995. In un centro di cura e riabilitazione per anziani Anna Kreuz lavora come infermiera, ma non è tra quelli del personale che ricevono in dono fiori, dolciumi e altri piccoli pensieri dagli ospiti, perché il suo sguardo gelido e i suoi modi tanto efficienti quanto distaccati non attirano le loro affettuose simpatie. Solo Gertrud H, ottantacinque anni e “nessun segno di decrepitezza”, quattro anni prima le ha regalato un piantina e per questo Anna ha condiviso talvolta con lei parte della sua storia, di quel passato che nessun altro conosce. Nemmeno Karl, il tuttofare del centro al quale ogni tanto dà appuntamento nella serra per qualche rapido momento di sesso; almeno fino a che lui si atterrà alle sue condizioni, naturalmente. La serra è dove Anna trascorre il suo tempo libero, proprio da quando ha ricevuto in dono quella piccola pianta carnivora. Da allora ha cominciato a studiarle, a collezionarle e curarle. Le guarda uccidere “per passatempo. Nessuna pianta carnivora ha bisogno di nutrirsi di carne”, e annota come e quando le foglie vischiose catturano e digeriscono i piccoli insetti; poi, meticolosa, raccoglie le parti cheratinose che vengono risputate fuori e le conserva in un armadietto. “Mi interessa il processo che porta alla morte”. Un giorno al centro arriva una nuova paziente, di lei sa soltanto che ha cinquantacinque anni. Forse è il suo sguardo, forse le sue condizioni, forse la passività quando la sottopone alla terapia, la presenza di questa donna rompe gli argini dei ricordi, “una nostalgia la risospinge indietro, un dolore che cerca il suo oggetto in tutti quei ricordi conservati”. Anna si rende conto che non è lei – non potrebbe mai trattarsi di lei! - ma la donna sembra riportarle dal passato l’unica persona che per Anna abbia mai contato qualcosa, Franziska, la piccola ebrea dalla pelle devastata dalle croste che la vita aveva strappato “dalla melma e ributtata nel mondo […], scelta e gravata della disperazione, delle domande brucianti di un popolo fantasma e della vergogna di essere sopravvissuta”. Giovanissime ospiti di un collegio erano entrambe considerate difficili e irrecuperabili; Anna l’aveva riconosciuta al primo sguardo, “un dolore affine al suo , eppure di una profondità che le risultava inquietante”, e così la puttana zingara e la puttana ebrea “si erano giurate reciprocamente di fare un pezzo di strada insieme”. Ma adesso i pensieri di Anna si confondono, dolore e sconforto tornano prepotenti dal posto in cui sono rimasti confinati per anni, i ricordi si mescolano alle sensazioni del presente: le voci che tormentavano Franziska, le croci, tutte quelle croci di varie forme, fattura e dimensioni, poi “quella” croce – la loro croce, che aveva scandalizzato le suore -, poi i racconti terribili della ragazzina stretta contro la sua schiena durante le notti, poi gli uccelli inchiodati alle pareti (“il primo fu il merlo”), poi la loro soffitta e il gioco che chiamavano “crocifiggere”, e poi Cristo, Prometeo, lo psichiatra Lodemann che aveva capito tutto di loro due…

Mai come in questo caso per comprendere i suoi libri è importante conoscere la storia di chi li ha scritti – fermo restando che se le parole sono capaci di esprimere un mondo interiore, anche lasciandolo soltanto colare come olio vischioso dalla trama del tessuto narrativo, la loro potenza è innegabile a prescindere. Conoscere Mariella Mehr, però, è importante perché la sua non è solo una storia personale, e tuttavia una storia ignorata fino agli ‘80 praticamente da tutto il mondo, quando altri reietti della Storia – quelli di serie C che son vissuti e scomparsi da sempre nell’ombra – hanno cominciato a far sentire la loro voce. Nata nel 1947 in Svizzera, la scrittrice e poetessa di etnia Jensch è stata strappata a sua madre quando era piccolissima, come altri tra 600 e 2000 bambini, per rientrare nel programma eugenetico Enfants de la grand-route (in tedesco Kinder der Lanstrasse) attuato dal governo svizzero dal 1926 al 1947 nel tentativo di stroncare il nomadismo considerato “ereditario-criminale” e affidato all’ente benefico Pro-Juventute. L’etnia Jenisch è la terza maggior popolazione nomade dopo i Rom e i Sinti e da queste popolazioni romanì (di derivazione indiana) profondamente diversa per l’origine germanica con influssi ebraici e celtici, nota anche come di “zingari bianchi”. Molto orgogliosi delle loro peculiarità, si considerano discendenti diretti dei Celti (anche se non è mai stato provato) e vantano tra loro personaggi famosi come i fratelli Marx e il sempre affascinante e indimenticato attore Yul Brinner. Gli storici in tempi abbastanza recenti lo hanno detto in termini chiari; sintesi ne è la voce di Ruth Dreyfuss, presidente della Confederazione svizzera:”L’Opera di soccorso Enfants de la grand-route è un tragico esempio di discriminazione e persecuzione di una minoranza che non condivide il modello di vita della maggioranza”. Mariella Mehr fu affidata nel tempo a sedici case famiglia e tre istituzioni educative; a diciotto anni, a sua volta, le fu tolto il figlio, e a causa della aumentata rabbia e ribellione costretta a quattro ricoveri in ospedali psichiatrici dove ha subito violenze e elettroshock, oltre a finire per diciannove mesi nel carcere di Hindelbank. Ma anche in tutto questo la sua è una storia condivisa, perché in questo genocidio i bambini di etnia nomade sono stati spessissimo istituzionalizzati come malati di mente. Dal 1975 la Mehr ha cominciato a raccontare le sue storie in articoli, poesie e libri e dal 1996 si è stabilita in Toscana da dove continua il suo impegno per sottrarre al silenzio la storia sua e della sua gente – “i vivi devono sapere” ha detto – e oggi è considerata una delle maggiori autrici del ‘900. “Spesso canta il lupo nel mio sangue/ e allora l’anima mia si apre/ in una lingua straniera./ Luce, dico allora, luce di lupo,/ dico, e che non venga nessuno/ a tagliarmi i capelli”. Quel canto di lupo è la voce di tutti i bambini protagonisti dei suoi libri, che sono tutti lei, sono tutti Anna de Il marchio. Una storia allucinata, questa, in cui realtà incubi e deliri si confondono; un racconto frammentato come un sogno terribile, una lunga suggestione che trascina il lettore con il fascino sinistro dell’orrore. La storia, nei particolari, non è dato di conoscerla, il lettore non capisce bene dove cominci il reale e dove il mondo oscuro della mente della protagonista, ma la forte potenza espressiva basta a questa storia di esclusione e persecuzione, che si fa più drammatica – come sempre – proprio nell’ “accoglienza” e nell’abbraccio di un istituto religioso che si fanno spesso tormento e tortura, ad aggiungere dolore al dolore. Il legame perverso e malato tra le due ragazzine domina pur con il suo non detto e costringe il lettore negli abissi oscuri e inquietanti della più tenera infanzia violata per sempre. Fandango dopo Il marchio completerà la cosiddetta Trilogia della violenza con Labambina e Accusata; a noi resta da scoprire quanto altro spaventoso dolore ci possa ancora essere da raccontare, celato tra le vaghezze (poche in realtà) della fiction narrativa. Valentina Pedicini con il lungometraggio Dove cadono le ombre e con documentari precedenti ha raccontato molto di Mariella Mehr e di quello che c’è nei suoi scritti. Forse conoscendola un poco si può avere una vaga idea di cosa significhi sopravvivere e “Fare il male come una prova di esistere”.