
Sanyi lo grida, forte e chiaro: meglio nel braccio della morte che esposto alla furia creativa di due donne! Il suo cordoglio di comunista è continuamente disturbato, infatti, dalla stessa storia: comprare un terreno sul Naphegy vendendo la casa di Budafok ereditata dalla moglie ed edificare una villa in stile Bauhaus. Un sacrilegio, mentre vengono calpestate la libertà, la giustizia, i diritti e la dignità umana. Per questo talvolta lo attanaglia un dubbio: il comunismo potrà mai davvero trionfare in Ungheria? Béla Kun arriverà mai a liberare il Paese in un tempo ragionevole, prima che sia troppo tardi? Perché, in caso contrario, se la tirannia si rivelasse sempre più potente, sarebbe in verità molto più conveniente privatizzare il tesoro del partito. Chiuso a doppia mandata nella cassaforte della banca infatti non genera alcuna felicità. In questo modo potrebbe viceversa comperare alla moglie, che non smette un momento che sia uno di versare a profusione calde lacrime, una o anche due ville a Buda. Del resto, chi altro sa dei soldi? Ottó è morto. Tibor è morto. Béla Kun ha l’asma. Jószi, se non l’hanno tirato fuori, si sta decomponendo in fondo al Danubio…
La storia dell’Ungheria, come anche l’attualità dimostra, è senza dubbio complessa, lunga e travagliata, come tutte quelle delle nazioni che nel corso della loro esistenza hanno attraversato alterne vicende. Nel 1919, appena dissoltosi l’impero di Austria e, appunto, Ungheria dalle cui tensioni nazionaliste interne era scoppiata la prima guerra mondiale finita da poco, Sanyi, il bisnonno della voce narrante, cui è intitolata la prima delle tre parti (le altre si chiamano Il conte e Il detenuto) di questo romanzo monumentale ‒ il secondo dell’autrice, con il quale nel 2009 si è aggiudicata il Premio letterario dell’Unione europea ‒ e molto ben scritto, intelligente, raffinato, elegante, ricco, vario, potente, accurato, ben strutturato, brillante, picaresco, credibile, non vero ma verosimile, satirico, che ribalta la vendetta de Il Conte di Montecristo di Dumas in un bruciante dileggio dell’imbecillità del potere e della burocrazia, intenso, caratterizzato nel dettaglio per quel che riguarda sia i personaggi che le situazioni, parte per Vienna. Ha una missione segreta. Deve consegnare venti chili d’oro per la causa della rivoluzione proletaria (lui è un macellaio – si capisce già dalla copertina, dove non si incrociano falce e martello ma due mannaie – vegetariano simpatizzante comunista). Il problema è che mentre è in viaggio cade il governo, e sarà solo il primo dei capovolgimenti a cui dovrà far fronte fino al fatidico 1956 quando l’esercito sgomina nel sangue la ribellione antisovietica. La voce della Szécsi è sicura e precisa, senza battute d’arresto, e rende l’articolata lettura, ricca di livelli, molto piacevole.