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Il Novecento dei libri

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Cosa intendiamo per “Novecento dei libri italiano”? Cosa significa che quello appena trascorso è stato “il secolo dell’editore”? Cosa rappresentava un “editore protagonista” e in che senso si poteva porre al di sopra dell’accademia? Qual è la differenza di carisma e di avanguardia tra le università inglesi e le università italiane, e quanto questo carisma e questa avanguardia incidono sull’editoria? Si può parlare di un secolo breve dell’editoria, e in che senso? Si può almeno individuare una decade come “cerniera” tra tradizione moderna e sensibilità (circa) postmoderna? In che senso l’editoria è entrata in crisi, dal Duemila in avanti? Cosa significa, oggi, ridiscutere la sua identità, il suo ruolo e le sue responsabilità? Qual è il ruolo giocato dalle nuove tecnologie, e quale quello giocato dalle varie iniziative “collaterali” rispetto alla vendita in libreria, dalle fiere ai premi letterari? Quali e quanti sono i fattori di pesantezza del nostro mercato editoriale? Che significa che le tirature medie siano state e spesso rimangano estremamente basse? Che significa che ci sia stata, da un certo momento in avanti, un’inflazione di titoli e quanto questa dinamica ha alterato gli equilibri di ogni genere, pregiudicando tutta una serie di investimenti e di incroci? Quanto pesa la scarsità delle librerie e delle biblioteche pubbliche nella fortuna dell’editoria italiana, e da quanto tempo è così? Come è cambiato il pubblico dei lettori, nel corso del Novecento, e cosa ha rappresentato, progressivamente, quel cambiamento? Quanto è stato grave e anzi decisivo l’analfabetismo o al limite la ridotta alfabetizzazione del popolo italiano, e in particolare sino a quale momento della nostra storia patria? E da quando i letterati hanno pensato a poter vivere, più o meno stabilmente, del loro mestiere (o meglio: dei loro mestieri?). E a prezzo di quali compromessi? Quando nasce, in Italia, la figura dell’agente letterario? E quanto deve, questa figura, all’internazionalizzazione dei circuiti letterari e giornalistici e alla crescente fortuna delle traduzioni? Cosa significava essere al contempo consulente e traduttore per una casa editrice, e in che senso si trattava di un ruolo strategico? E oggi c’è qualcosa di differente? E da quando la letteratura americana ha sostituito la letteratura francese, come letteratura egemone dalle nostre parti? Cosa ha rappresentato, in genere, politicamente e culturalmente questo passaggio di consegne? Come e quando sono cambiati i paratesti (bandelle e quarta di copertina) nel corso del Novecento, e perché hanno iniziato ad assumere maggiore centralità? Quali sono stati gli accorgimenti adottati in tal senso? E come la grafica libraria è andata a incontrare l’arte contemporanea, e con quanti e quali esiti? Da quando è iniziato il boom delle enciclopedie a dispense vendute nelle edicole (o, addirittura, porta a porta) e che cosa ha rappresentato? Quanto è durato? E quali equilibri ha cambiato la scelta di allegare i libri ai quotidiani o ai periodici, in edicola, da un certo punto in avanti? In che senso le librerie hanno fatalmente perduto, per tutta una serie di fattori, la loro centralità? In quali decadi del secolo scorso la censura ha giocato un ruolo da protagonista, e per quali ragioni, e con quali molteplici esiti? Qual è stato il segreto ruolo giocato, periodicamente, dai “classici”, in quel contesto? Qual è stato il periodo di maggior fortuna della Adelphi, e per quali ragioni? In cosa si differenziava rispetto ad altre case editrici prestigiose? Quanto l’ideologia ha influenzato o condizionato le scelte editoriali italiane, nel corso del Novecento, e quanto distante Adelphi ha saputo rimanere da certi vizi? A queste e a tante altre domande (tante davvero) risponde Il Novecento dei libri. Una storia dell’editoria in Italia, trattato su un secolo complesso, contraddittorio e spesso caotico e convulso…

Questo robusto saggio della professoressa Piazzoni è suddiviso in una buona introduzione, sei capitoli (“Il laboratorio del primo Novecento”; “Tra lusinghe del mercato e coercizione politica: gli anni del regime”; “Libri per l’Italia democratica: la transizione postfascista e il dopoguerra”; “Dal ‘miracolo’ alla contestazione: il libro alla prova dell’industria culturale”; “Il canto del cigno dell’editoria ‘protagonista’”; “Concentrazioni e nuovi soggetti nell’età ‘postmoderna’ dell’editoria”), un asciutto apparato di note, una sintetica nota bibliografica e un pratico e dettagliato indice dei nomi. Siamo dalle parti di quelle pubblicazioni destinate, originalmente e si presuppone fatalmente, ad essere adottate da diverse università e in ogni caso ad avere una circolazione tra studiosi, ricercatori, addetti ai lavori o giù di lì; il respiro dell’opera è così ampio, la quantità di riferimenti esatti e puntuali e di citazioni è così enorme e frenetica che non si può nemmeno confidare in una circolazione “pop”. Sarei tentato di fare qualche osservazione sullo stile della studiosa, perché nel merito delle molteplici questioni affrontate e sintetizzate non si può entrare, se non a condizione di scrivere tutta una serie di altri saggi in risposta, argomento per argomento; è così considerevole la mole di questioni trattate e così spiazzante il numero degli editori e delle collane nominate, tutte in poche o pochissime righe, come dando per acquisito o per pacifico che il lettore sapesse sempre, caso per caso, di che cosa si trattasse, che non ci si può concentrare su un aspetto o una vulnerabilità in particolare. Tanto andrebbe ridiscusso e forse ben diversamente soppesato. Talmente tanto che non ha nemmeno senso cominciare a fare obiezioni. Cerco di dire due parole sullo stile della Piazzoni. La sensazione è di aver avuto accesso, in più di un frangente, a tutta una serie di lezioni “sbobinate”: parecchi capitoli sembrano trascrizioni, rapide e singultiche, di lezioni caratterizzate da una tendenza al “volo d’uccello”, alla visione di un’aquila che osserva le dinamiche interazionali e i movimenti di tutta una serie di più o meno colorate (o colorite?) formiche, tendenzialmente operose, spesso ripetitive e prevedibili nelle scelte e nelle interazioni. Parecchie case editrici sembrano trattate e restituite post “schedatura”, e queste piccole schede di 5-10-15 righe al massimo finiscono per essere parte di una trattazione complessa e amplissima, con scelte a volte tortuose o difficilmente spiegabili (ad esempio: perché la piccola NN di Milano si ritrova sostanzialmente in “positio princeps”, in coda al saggio, proprio nelle ultime due pagine? Quando e come la NN ha scritto la storia dell’editoria degli anni Zero, e in che senso ha costituito un elemento di rottura o di innovazione, e per chi? Bizzarra scelta. Non è l’unica “scelta autoriale” che ho osservato con stupore, perplessità o con vario interesse; il “meneghino-centrismo” mi è parso abbastanza evidente o surclassante). Prima di congedarci, qualche cenno bibliografico sull’autrice. Irene Piazzoni è docente di Storia Contemporanea all’Università degli studi di Milano. Ha pubblicato vari saggi sulla storia della cultura, dell’editoria e del giornalismo, tra cui Valentino Bompiani. Un editore italiano tra fascismo e dopoguerra (LED, 2007) e Storia delle televisioni in Italia. Dagli esordi alle web tv (Carocci, 2014).