
Autunno 1943. Dopo la diserzione e una rocambolesca fuga da Roma al Piemonte, un giovane soldato soprannominato Johnny si è rifugiato a casa dei suoi. Alba è un luogo pericolosissimo per un soldato sbandato, “coi suoi bravi bandi di Graziani affissi a tutte le cantonate” e “continue irruzioni di tedeschi da Asti e Torino su camionette che riempivano di terrifici sibili le strade deserte e grige”. I fascisti controllano le grandi città del nord, dalle quali si riallargheranno presto “nelle piccole città e nelle campagne come una macchia d’olio asfissiante”. Il padre preoccupatissimo impone a Johnny di recarsi in una villetta in collina e rinchiudersi là al sicuro con libri, sigarette e provviste, senza uscire mai. Le giornate sono insopportabilmente lunghe, le notti insonni. Quasi tutti i giorni gli fa visita il padre e lo aggiorna sull’andamento della guerra. Così Johnny viene a sapere della liberazione di Mussolini sul Gran Sasso ad opera di Skorzeny, della costituzione in Germania di un governo nazionale fascista, della strage di Cefalonia. Alcuni amici del ragazzo sono arrivati anche loro in città, di altri non si sa nulla o peggio si sa che sono morti. Saputo che il cugino Luciano è tornato sano e salvo da Milano, Johnny decide di rischiare la cattura e andarlo a trovare. Gli zii – soprattutto la zia, a dire il vero – sono ammiratori scatenati degli Americani, ma dopo lo sbarco di Salerno la prevista marcia trionfale verso Roma si è insabbiata sui “primi contrafforti costieri-montani”. Tutti i giorni ascoltano alla radio la proibitissima Voice of America sperando in novità positive che non arrivano. Una sera d’ottobre Johnny prende il coraggio a due mani e scende in città, entra nel caffè sulla piazza principale e chiede del professor Chiodi. Gli dicono che lo può trovare all’Albergo Nazionale, dove di solito cena. Effettivamente è là, l’incontro tra ex allievo ed ex professore è affettuoso, ma dopo gli abbracci e i convenevoli Johnny viene al punto: vuole sapere dove trovare Cocito, un professorino di liceo che aveva già fama di comunista ma ora a quanto pare fa da arruolatore per le brigate partigiane…
Lasciato incompiuto da Beppe Fenoglio e pubblicato postumo nel 1968 per Einaudi a cura di Lorenzo Mondo, Il partigiano Johnny – il titolo, per quanto assai efficace, è stato scelto dal primo curatore, senza che ci fosse alcuna indicazione dell’autore in tal senso – fu dapprima presentato in una forma ibrida, mescolando le due redazioni differenti lasciate nel cassetto da Fenoglio con un criterio arbitrario. Una seconda edizione, datata 1978 e curata da Maria Antonietta Grignani, le presentava integralmente e separate. Il terzo assetto, proposto da Dante Isella nel 1992 e qui riproposto, è costituito da un montaggio in successione dei capitoli I-XX della prima redazione e dei capitoli XXI-XXXIV della seconda. Centrale in questo emozionante affresco della guerra civile italiana tra 1944 e 1945 non è – come sarebbe lecito pensare – lo sfondo storico, ma il linguaggio: per Fenoglio, nato nel 1922 e quindi scolaro in pieno Ventennio, l’inglese era la lingua magica della libertà e della modernità, mentre l’italiano quella “della falsificazione propagandistica della dittatura e dei suoi riti celebrativi”, come sottolinea Isella nel saggio in appendice al romanzo. Da ragazzo Fenoglio era un vorace appassionato della letteratura e della cultura anglosassone, che considerava una rivincita intellettuale sul proprio ambiente. Non sorprende quindi che, con una scelta assolutamente spiazzante per chi non conosca questo retroscena culturale, non solo egli tratteggi la figura di un giovane che condivide le sue stesse passioni, ma lo faccia esprimere in una bizzarra alternanza di italiano e inglese (un inglese peraltro abbastanza “creativo”, con l’autore evidentemente e legittimamente più attento alla forza eversiva della parola anglofona che alla sintassi) o con l’uso di neologismi a metà tra le due lingue oppure addirittura lavorando su termini francesi, latini e piemontesi. Ne Il partigiano Johnny – che contiene scene già narrate in altre opere di Fenoglio e anche molte vicende autobiografiche – lo scrittore piemontese è perfettamente visibile in trasparenza, ci appare così come lo descriveva Italo Calvino: “È un tipo magro, con una faccia da film del West, un po’ brutale e accipigliata, caratteristiche accentuate da una triste affezione: una vegetazione di verruche e escrescenze sul viso. Parla a scatti, con brevi frasi dal giro inaspettato. Non è certo timido (è chiaramente un uomo pratico e risoluto ed è stato comandante partigiano nei badogliani), né è tipo da darsi arie; ma è un uomo che rimugina dentro e parla poco”. Un uomo quindi spigoloso, che per giunta qui e altrove raccontava la Resistenza in modo tutt’altro che allineato al canone egemone negli anni Cinquanta italiani, quello comunista. Tanto che Davide Lajolo, critico letterario de “l’Unità” ed egli stesso ex partigiano, nel 1952 in una recensione de I ventitré giorni della città di Alba arrivò a insinuare simpatie fasciste (inesistenti) di Fenoglio (“Stupisce che un editore come Einaudi pubblichi roba del genere”, chiosava acido Lajolo, che negli anni Settanta fece una dolorosa autocritica e sullo scrittore ingiustamente da lui vituperato realizzò persino un documentario televisivo). Nel 2000 anche Guido Chiesa ha tratto dal romanzo (basandosi perlopiù sull’edizione del 1968) un film, interpretato tra gli altri da Stefano Dionisi e Fabrizio Gifuni. E non sorprende che questo romanzo sul riscatto di un imboscato che vive la Resistenza più come un fatto esistenziale, come un moto dell’anima, che come la stagione più estrema della militanza politica, venga percepito come “controverso” o addirittura “revisionista”. Né che affascini i cineasti: è la storia di un uomo libero, di un antieroe però scevro da ogni maledettismo, un “guerriero moderato” alle prese con le radici della nostra democrazia.