
È la prima domenica d’Avvento e come ogni anno Benedikt, che oramai di anni ne conta 54, si mette in viaggio con il suo cane Leó e il montone Roccia (nomen omen) alla ricerca di quelle pecore, non necessariamente le sue, sfuggite al grande raduno autunnale e che rischierebbero di morire assiderate sperdute nel gelo della montagna islandese se la caparbietà di questo pastore non le considerasse comunque animali fatti di carne, sangue e anima. Benedikt, che non sa dire di no quando qualcuno gli chiede aiuto, lui che conosce quelle piste da 27 anni, l’unico che può tirare in salvo pecore recalcitranti insieme ai suoi non meno caparbi aiutanti. La santissima trinità, li chiamavano in paese. Ogni anno “quel viaggio era come una poesia, con rime e parole magnifiche che restavano nel sangue. E come una poesia, col tempo si imparava a memoria e poi si sentiva il bisogno di tornare, per accertarsi che nulla fosse cambiato. E così era: tutto era ancora estraneo e inaccessibile, eppure familiare e inevitabile”…
Un pastore cerca alcune pecore smarrite nel desertico altipiano interno islandese, ma viene colto da una tempesta di neve. Possiamo anche svelare il finale (Benedikt tornerà sano e salvo in paese) e la bellezza di questo romanzo rimarrà intatta. Perché non è lì che risiede ciò che lo fa risplendere. A brillare sono i ghiaccioli che si formano sulla barba e che vanno tagliati via con il coltello. A scaldare sono i pezzi di carne secca e burro e caffè caldo. La bellezza è nel pelo bianco e giallo di Leó, nel carattere scorbutico e saldo di Roccia e nelle poche parole di Benedikt, nell’unica sua preoccupazione. Non quella di morire, ma quella di non sapere se il suo ruolo sarà svolto da qualcun altro quando morirà. Il senso ultimo della vita dell’uomo. Avere uno scopo nell’ aiutare l’altro (uomo o bestia), niente di più semplice e al tempo stesso impensabile al giorno d’oggi, così impegnati a proteggerci come siamo. Gunnar Gunnarson, islandese di nascita, scrisse i suoi romanzi in danese: lasciò il paese natale all’età di 18 anni per studiare a Copenaghen e la lingua in cui scrisse fu quella così duramente imparata nel corso della sua vita adulta. Solo quando fu vecchio e tornò in Islanda decise di riscrivere i suoi romanzi nella lingua natale, “traducendo da anziano quello che aveva scritto da giovane” leggiamo nella postfazione di Jón Kalman Stefánsson, che ogni anno il 23 dicembre apre questo libro e lo rilegge, permettendo a Benedikt, Leó e Roccia di ripercorrere ancora una volta quella strada che conoscono così bene, insieme.