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Il più grande criminale di Roma è stato amico mio

Alfredo Braschi vive da solo in un alberghetto che si chiama “Miralago”, sulle sponde del lago di Albano. Tutto è cambiato attorno a lui, i luoghi della sua giovinezza selvaggia ora sono una sequela di “ristoranti e stabilimenti che affittano canoe e un sacco di stronzate”. I soldi in banca stanno per finire, Alfredo possiede soltanto una cassetta piena d’oro e gioielli che gli custodisce un amico a Ciampino e qualche pistola: una Beretta calibro 6,35 che apparteneva al padre, un revolver calibro 9 e soprattutto una calibro 22 di ottone da mattatoio, nella quale la detonazione della cartuccia fa scattare una molla che conficca un grosso chiodo nella testa di mucche e cavalli. La sua è stirpe di allevatori e macellai. È stato il suo inizio e sarà anche la sua fine, perché ha deciso tanto tempo fa che quando per lui verrà il tempo di morire, si ficcherà in testa un chiodo con quella enorme pistola, che porta sempre con sé. Ripensa spesso con rimpianto ai Castelli Romani di una volta, all’atmosfera piena di elettricità animale che si respirava, alla sua giovinezza. Ricorda Catherine, arrivata dalla Costa Azzurra per visitare i parenti del padre italiano. Era il 1974. Lei sedici anni, lui diciassette, passavano ore a baciarsi nell’Alfa GT rossa fiammante di suo zio Francesco, che Alfredo guidava senza patente. Una sera – dopo aver fatto l’amore tutto il pomeriggio – vanno a cena al ristorante “Il Vecchio Fico”, a pochi chilometri da Grottaferrata. Al tavolo di fronte, una coppia. Alfredo tornando dal tavolo del buffet urta non volendo l’uomo, che si gira di scatto (“movimento agile, da peso welter”) con aria un po’ minacciosa ma accetta le scuse del ragazzo con un sorriso. Finita la cena, le due coppie si incrociano di nuovo nel parcheggio. Alfredo nota che l’uomo è di bassa statura e zoppica, malgrado sia un tipo atletico e abbia qualcosa di feroce nell’atteggiamento. Accennando all’Alfa GT, il signore lo sfida “con gli occhi divertiti e gelidi” ad una gara di velocità fino a Grottaferrata. Lui ha una Daytona Ferrari viola. Alfredo, che prova per l’uomo una istintiva simpatia, accetta con entusiasmo. Senza aspettare un segnale, il ragazzo parte sgommando e raggiunge in pochissimo tempo il traguardo. Poco dopo arriva la Ferrari. L’uomo si sporge dal finestrino: “Mi piaci, non mi sono sbagliato. Sei veloce”. E sorridendo se ne va. Alfredo viene a sapere poi che quel signore si chiama Laudovino De Sanctis e fa il rapinatore…

Tra presente e passato, tra poliziottesco anni Settanta e monologo intimista, tra crudo realismo ed esistenzialismo, tra fiction e biografia: ecco la linea di confine sulla quale cammina Aurelio Picca in questo libro emozionante ed emozionato. Scrive di un personaggio inventato (che pure, forse, ha qualche piccolo tratto autobiografico) e di uno preso di peso dalle pagine della cronaca nera: Laudovino De Sanctis, detto «La Belva» o «Lallo Lo Zoppo», una figura leggendaria del crimine italiano tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta con sette omicidi, quattro sequestri di persona, undici condanne, due fughe dal carcere e l’arresto definitivo soltanto nel 2004, quando De Sanctis era già anziano (ma tutt’altro che domo). Picca, affascinato dalle gesta del celebre criminale sin da ragazzo, ne parlò in un articolo scritto per “il Giornale” nel 2015, “Ma in realtà, ho pensato a come costruire il libro dal 2012, appena terminato Addio. Quell’articolo fu una svolta nel giro simmetrico invisibile del fato. Ho conosciuto la figlia di Lallo, ho accumulato materiale. Quattromila fogli di carte processuali. Eppure, non m’importava scrivere un romanzo storico né la biografia di un criminale – il libro doveva essere ineccepibile, ma raccontare qualcosa di più potente”, ha raccontato lo scrittore in un’intervista a “Pangea News”. E quel qualcosa di più potente tra le righe de Il più grande criminale di Roma è stato amico mio in effetti c’è. Non sta nelle imprese nefaste di Lallo lo Zoppo, come abbiamo visto. Non sta nel lato oscuro e doloroso della storia di Alfredo Braschi, nella sconvolgente vicenda di sua figlia e della vendetta ad essa legata. Sta probabilmente nell’ambientazione, nell’atmosfera in cui si muovono i personaggi, nella trama arcana e antica con cui sono tessuti i loro destini, nei colori cupi e feroci del lago Albano e dei boschi che lo circondano. “Quando parlo di ferocia, faccio riferimento alla selvaggeria, a quella ferocia pagana che è natura pura. D’altronde la trama del libro si svolge in un’ambientazione dei Castelli pre-Romani, e quindi poi, Romani, che è fortemente pagana e intrisa di sacrifici di uomini e di animali. Sono luoghi pieni di significati simbolici”, spiega lo stesso Picca a Droga Magazine, e ancora a “Pangea News” nell’intervista già citata: “Questi sono luoghi arcani, pazzeschi: James Frazer ha scritto Il ramo d’oro intorno a Nemi, sul Monte Cavo sorgeva il tempio di Giove, il più importante della latinità, da sempre, da secoli, fanno pellegrinaggi lassù – ci fanno anche le messe nere. Tra quei crateri sono nato io”. Ecco quindi che Laudovino De Sanctis e Alfredo Braschi e persino Aurelio Picca sono simulacri, simboli, pretesti per raccontare una Roma (e dintorni), una realtà che non esiste più - o forse non è mai esistita - perché era/è fatta della stessa sostanza dei sogni, ma che la maestria di un narratore sottovalutato sa rendere di nuovo concretissima, coriacea, dura, rocciosa, vera.