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Il precipizio dell’amore

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Mariangela è una mamma e una maestra di scuola primaria. Quando è stata nominata insegnante di sostegno di Laura, bambina bellissima e affetta da una gravissima disabilità, si è resa conto di quanto questi bambini vengano ancora emarginati e di quanta strada sia ancora necessario percorrere prima di arrivare a una vera consapevolezza delle potenzialità che anche un bambino disabile racchiude in sé. D’altra parte, quella della disabilità è una realtà che Mariangela conosce molto bene. Terminate le lezioni a scuola, infatti, corre a casa più in fretta che può, perché lì la attendono Sofia e Bruno, entrambi disabili. Quando era incinta della prima figlia, Mariangela ha letto parecchi libri, convinta di poter trovare la chiave giusta per creare una famiglia perfetta. Lei e Mario si sono sempre amati molto e lei era convinta che il suo ego e la sua personalità non potessero che essere strumenti utili per generare figli straordinari, i migliori. E i suoi figli straordinari lo sono per davvero, anche se la loro storia non è scritta in alcun libro. Mariangela è una mamma borderline, una sorta di funambolo sempre in bilico tra il dolore e la ricostruzione. È una donna che un tempo sognava e che deve continuare a farlo, nonostante tutto, per poter donare un poco di luce alle persone che ama. Mariangela odia con tutta se stessa la malattia della figlia, la sindrome di Rett, diagnosticata quando la piccola aveva sei mesi di vita; una malattia degenerativa gravissima che comporta una patologia progressiva dello sviluppo neurologico. E odia allo stesso modo il tumore al cervello che ha colpito il suo unico figlio sano, rendendolo disabile. Odia le malattie dei figli, sì, ma non può crogiolarsi nel suo dolore perché lei, a differenza dei figli, è sana ed è tutto ciò che loro hanno. Quindi deve darsi da fare, non si può permettere di essere trasparente. E allora scrive, canta e recita da sola in casa, perché solo l’arte e il bello, che la salvano ogni giorno dal buio, potranno salvare anche i suoi figli…

La sofferenza e il dolore come energia, come pretesto per raccontare - attraverso la storia di una famiglia che affronta per due volte la tragedia della disabilità - l’animo umano e il suo percorso perfetto per non abbandonarsi al precipizio della disperazione, ma per abbracciarne uno ben più profondo, quello dell’amore, quell’inciampo improvviso rappresentato dalla felicità. Mariangela Tarì ha una laurea in Giurisprudenza, ha conseguito l’abilitazione per l’insegnamento alla scuola primaria e lavora come docente di sostegno di bambini diversamente abili. Da anni collabora con il teatro C.r.e.s.t. di Taranto realizzando percorsi teatrali per le scuole. È presidente dell’associazione di promozione sociale La Casa di Sofia (il nome è quello della figlia maggiore) che si occupa di migliorare la qualità della vita dei bambini con disabilità o gravemente ammalati. All’associazione saranno devoluti i proventi legati alla vendita del romanzo in cui la Tarì, donna che riesce a vivere giornate di ventisei ore o anche più, racconta la sua vita di madre di due figli, entrambi colpiti, in modi e momenti diversi, da gravi malattie che hanno compromesso il loro livello di autonomia. Si tratta di un libro doloroso ma necessario, nel quale la realtà della sofferenza viene narrata con una delicatezza piena di energia, l’energia di genitori colpiti da dolori così profondi che l’unico modo per non soccombere diventa quello di abbracciare la propria sofferenza e cercare di guardare oltre, per cogliere la bellezza che governa il mondo, nonostante tutto, e la felicità, unico antidoto alla disperazione. In una lettera al quotidiano “la Repubblica”, in seguito alla quale nascerà poi l’idea di raccogliere i suoi appunti in un volume, la Tarì ha spiegato in parte il suo percorso: “Mio figlio, Bruno, ha il cancro. Al cervello. Medulloblastoma si chiama. Un nome indegno di essere pronunciato. Era il mio unico figlio sano. Sì. Ho una bimba più grande, Sofia, Sindrome di Rett. Un destino infame. Ho desiderato morire. Ma ora devo vivere... E per vivere, e per lottare, e per sperare, devo trovare il bello. Devo dare a tutto questo un vestito che non sa di morte ma di vita. Allora tutto il mio dolore devo, è un dovere, trasformarlo in possibilità”. L’autrice racconta, con una tenerezza e una lucidità che emozionano ad ogni singola parola, di come provi ogni giorno a tramutare il dolore in bellezza - perché per chi vive così vicino alla malattia e alla morte “la vita diventa un bene da spolpare fino all’osso” - e a vivere d’amore, l’unico sentimento, che coinvolge testa e cuore, capace di salvare se stessi e gli altri.