
Fine novembre 1840, è una giornata grigia e piovigginosa a Nablus. Il suk sta aprendo le sue botteghe, l’hammam manda già i suoi vapori, la fabbrica di sapone di Marsiglia inizia la sua attività, mentre il muezzin richiama i fedeli alla preghiera. Come ogni mattina Bashir, un ragazzino alto e magro, vestito alla meglio nonostante il freddo, porta al pascolo le sue otto capre. Di loro iniziativa le bestie entrano nel cimitero dietro la moschea maggiore e scorrazzando tra le lapidi brucano l’erba qua e là. Usciti dalla città si dirigono alle pendici della montagna. Sotto un olivo Bashir scorge un corpo rattrappito, che giace con la testa reclinata all’insù. Ha la bocca semi aperta, i denti frantumati ed è immerso in una pozza di sangue. A fianco del corpo c’è una pistola a canna lunga, una Mortimer. Il ragazzo si avvicina e guarda il volto segnato dalle rughe e dagli anni, la barba grigia e incolta e lo riconosce. È il rabbino italiano, David Ajash. Bashir corre ad avvisare i gendarmi, che a loro volta convocano d’urgenza Abram Crespo, rappresentante della comunità ebraica di Nablus e amico di David. Le indagini hanno inizio e la prima domanda è: “Il rabbino è stato ucciso o si è suicidato?
Torna in libreria Ariel Toaff non con un dotto saggio, ma con un giallo letterario, Il rinnegato, che segna il suo esordio nella narrativa. L’esperienza professionale dell’autore, che è un rabbino e uno storico, supportano perfettamente la trama. Le atmosfere ottocentesche sono affascinanti e fruibili da tutti. Nel romanzo è evidente la dottrina ebraica densa di significati che Toaff rende comprensibile, suscitando anche la curiosità di approfondire. Il rinnegato è ambientato all’inizio del XIX secolo e David Ajash ne è il protagonista. È un rabbino di origini algerine, nato e cresciuto in Italia, a Livorno. Conduce una vita spregiudicata in tutti i sensi, per opportunismo si converte al cristianesimo e abbandona moglie e figli per perseguire i suoi sogni. Si tratta di un personaggio esistito veramente, di cui Ariel Toaff ha trovato tracce rivolgendosi all’archivio della comunità ebraica di Livorno. È presente nell’elenco dei catecumeni che erano passati dall’ebraismo al cristianesimo. Si diceva che fosse un rabbino, di famiglia rabbinica, come pure l’autore. Il piano del racconto è retto da un manoscritto, quasi un diario, redatto da David e trovato dall’amico Abram Crespo dopo la sua morte. È una lettera-confessione a suo figlio Moisé, anche lui rabbino, osservante e grande studioso della Torah, che aveva interrotto i rapporti con lui perché troppo dissoluta la sua vita, cieca la fede nella Kabbalah e troppo stretti i rapporti con la massoneria. David nella sua vita ha compiuto tragitti contraddittori, poco consoni a quelli di un uomo di fede e proprio per questo la sua figura è interessante. È un uomo divisivo, inviso all’ambiente ebraico che lo riteneva estremamente pericoloso e deprecato da quello cattolico per il suo ritorno all’ebraismo e per la sua conversione di facciata. Anche nell’amore è un uomo particolare. Un rabbino che ama Giusi, una prostituta non ebrea e successivamente ama di nuovo la vedova Danon di Nablus. È proprio questa donna che redarguisce Moisé quando critica il ricordo del padre e lei si permette di dirgli: “Guarda che tu non lo conoscevi, io lo conoscevo”. Ci sono vari David a seconda di chi lo ha avvicinato, non è una figura monolitica. Tutte le visioni della stessa persona fatte da angolazioni diverse sono vere. Si indaga su questa vita, il romanzo inizia con un assassinio o con un suicidio e chi deciderà alla fine sarà il lettore. Un mistero rimane, il significato dell’amuleto che David ha tenuto sempre con sé. L’aquila è l’animale che ha una vista profondissima, è l’artiglio che prende il mondo. “La mia calata agli inferi era già a buon punto. Il destino mi stava offrendo un’altra occasione”. David Ajash cerca di arrivare più in basso possibile per poi potersi elevare a quei livelli che l’ebraismo considera santità.
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