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Il ritmo di Harlem

Il ritmo di Harlem

New York, estate del 1959. Qualche anno fa le radio andavano forte. Ce ne erano di tutti i modelli e di tutti i prezzi: “un negozio sparava in strada jazz a tutto volume dagli altoparlanti a megafono, un altro sinfonie tedesche, poi ragtime e così via. S&S Electronics, Landy’s Top Notch, Steinway the Radio King. Adesso era più probabile sentire rock and roll, un disperato tentativo di attrarre la scena adolescenziale” ma invano, perché oggi tutti vogliono i televisori e i giradischi hi-fi, la radio è acqua passata. Ray Carney ormai ci ha rinunciato, nel suo negozio sulla 125esima strada non ne ha venduta neanche una in un anno e mezzo, malgrado abbia abbassato tantissimo i prezzi. Stamattina ne ha caricate tre sul cassone del suo pick-up – due RCA e una Magnavox, tutte con elegantissimi mobiletti in mogano – e le sta portando da Samuel’s Amazing Radio RIPARIAMO TUTTE LE MARCHE per vedere se ad Aronowitz interessano. Il vecchio Aronowitz, riparatore geniale di radio, è l’unico che chiama Carney “signore”, almeno Downtown. “(…) Non sbagliava mai una riparazione, non rimaneva mai senza un pezzo”, però lo irritano e spiazzano le novità continue immesse sul mercato, la volubilità del pubblico. Quindi a riparare le televisioni ci mette più tempo, come per una forma di protesta contro un lavoro che non fa volentieri. Carney ha lasciato da lui un Philco da ventuno pollici di un cliente la settimana prima e deve finalmente ritirarlo, ma con l’occasione vuole provare a rifilare ad Aronowitz le tre radio che gli sono rimaste sul groppone. Può usarle per i pezzi di ricambio, magari. Pezzi di ricambio ne ha quanti vuole – gli risponde il vecchio negoziante: sono i clienti che mancano. Comunque gli dice di lasciarle da lui, vedrà se riesce a piazzarle a qualche cliente. In un angolo Carney nota quattro televisori Silvertone, mobiletto Lowboy in legno chiaro, multicanale. A quanto pare ad Aronowitz li ha portati un tizio che ha raccontato che gli erano caduti dal furgone. Ma sembrano più o meno intatti, a Carney fanno gola perché è sicuro di venderli: “Centocinquanta a rate, quei televisori avrebbero messo i piedi e sarebbero usciti dal negozio cantando l’inno nazionale”…

L’ottavo romanzo di Colson Whitehead è in realtà per certi versi il settimo, dato che lo scrittore newyorchese aveva iniziato a scrivere Il ritmo di Harlem prima di fermarsi e dedicarsi invece a I ragazzi della Nichel (che gli ha fruttato il suo secondo Premio Pulitzer per la narrativa, nel 2020). Ma di fatto, dopo l’interruzione, lo ha completato durante il lockdown per la pandemia di COVID-19 e fatto uscire nel 2021, anno in cui l’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama lo ha inserito nella sua consueta lista dei libri preferiti. Whitehead qui rilegge a suo modo un topos letterario molto antico e fortunato, quello della “discesa agli inferi” di un’anima buona, della corruzione di un uomo qualunque che passo dopo passo inesorabilmente diventa un criminale – ma senza perdere la tenerezza, l’amore per la sua famiglia e il suo “neighborhood”. Ambientato tra 1959, 1961 e 1964 in una New York che attraversa enormi cambiamenti urbanistici e sociali, il romanzo culmina con la rivolta di Harlem del luglio 1964, scoppiata dopo l’uccisione del quindicenne afroamericano James Powell da parte del poliziotto Thomas Gilligan di fronte agli amici di Powell e a circa una dozzina di altri testimoni. Migliaia di persone misero a ferro e fuoco Harlem e Bedford-Stuyvesant e giunsero ad attaccare il dipartimento di polizia di New York City. La repressione fu durissima e alla fine si contarono un manifestante morto, 118 feriti e 465 arrestati. Come è evidente, la città non è solo un’ambientazione, per Whitehead. E non è nemmeno un vero e proprio personaggio al pari degli altri o addirittura la protagonista del libro, come si dice a volte banalmente nelle recensioni. Detta il tempo del romanzo, è la sezione ritmica, è l’idea che dà un senso a tutta la storia, è un’ossessione, è la febbre che brucia dentro Ray Carney e gli altri, che li spinge a un’angosciosa fame di crescita sociale. “Mi sono trasferito molto crescendo in questa città. C'è sempre un appartamento migliore che ti aspetta”, ha spiegato l’autore in un’intervista alla rivista “Vulture”. “Se metti insieme tutto quello che hai, se ce la fai, forse puoi ottenere due camere da letto o trasferirti in una zona migliore, con più luce. Ogni volta che mi trasferivo in un nuovo posto, una volta arrivato mi rendevo conto che ero comunque la stessa persona, che voleva un altro appartamento in fondo all’isolato”. È un romanzo di New York, su New York e che non sarebbe mai potuto esistere senza New York e la sua gente.

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