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Il settimo manoscritto

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Roma si sta svegliando a poco a poco mentre l’alba ne illumina di rosa i contorni e ne rivela i profili che si fanno sempre più nitidi e dettagliati. Si spengono i lampioni, le strade iniziano a popolarsi di veicoli e di qualche raro passante che procede a piedi sferzato dall’aria del mattino. Aprono edicole e bar. Tre figure, probabilmente tra le più mattiniere, si aggirano sfaccendate nei dintorni del convento di San Gregorio al Celio e cercano di riscaldarsi frizionandosi le braccia con le mani: due frati camaldolesi e un giardiniere. Scambiano qualche parola, poi padre Camillo, uno dei più anziani del convento, lascia gli altri due e si avvia con un’andatura traballante verso l’ingresso per poi rientrare, procedendo piano fino allo studio del priore, dove, una volta entrato con la chiave, trova la cassaforte spalancata, senza traccia del prezioso documento in essa contenuto. Si tratta del manoscritto Unicum, un’opera unica nel suo genere risalente al Cinquecento. Nessuno conosce il significato del testo, scritto per allegorie misteriose, nonostante diversi studiosi si siano cimentati nel vano tentativo di decifrarlo. Sul caso indaga la polizia, sotto la guida del commissario Restelli, a partire dalla cassaforte violata certamente da un professionista, che si è introdotto nel convento senza lasciare segni di effrazione…

Uno scrittore in crisi d’ispirazione si trasforma in investigatore e si mette alla ricerca del ladro di un manoscritto misterioso, scoprendo, non senza rischi, ben più di questo, ma riuscendo – guarda un po’ – dove generazioni di studiosi hanno fallito. Un espediente narrativo già visto, ma che quasi sempre funziona. Il settimo manoscritto è un cosy crime dove ci si chiede se sia mai possibile che la polizia sia davvero così sprovveduta. Strutturato sulla falsariga di un romanzo di Dan Brown, tra labirinti e architetture confondenti, codici ed enigmi, strutture misteriose e una co-protagonista femminile che compare portando un contributo provvidenziale, senza troppi sangue o armi. Scorrevole, ma l’attenzione alla descrizione di luoghi e toponomastica romani sfocia nel maniacale: è evidente che Fabrizio Santi ami la città natale, ma si sa che il troppo stroppia. La curiosità del lettore non decolla: resta lì sospesa mollemente a mezz’aria, fino al finale un po’ banale. I personaggi sono piatti, i dialoghi improbabili e anche il rapporto tra Giulio ed Elena, che – ovviamente – si innamorano subito, è poco sviluppato, non ci sono baci, momenti di intimità: non che siano indispensabili in un thriller, ma forse li renderebbero un po’ più veri. Inoltre Giulio cerca di sembrare ironico e sarcastico, ma non sempre ci riesce. Alcuni termini desueti o inutilmente ricercati lo fanno sembrare a tratti il tema di uno studente che si sforza per stupire l’insegnante. Interessante invece la metafora della ricerca dell’essere umano attraverso l’indagine per scoprire il colpevole. “Non esistono cose scritte che l’uomo non debba leggere. Il pensiero è libero e non c’è libro, per quanto aberrante possa essere il suo contenuto, che debba esser messo all’indice”.