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Il sosia

Il sosia

Il consigliere titolare Jàkov Petròvic Goljàdkin si sveglia poco prima delle otto del mattino, ancora in dubbio se sia ancora invischiato in un sogno o abbia aperto gli occhi sulla realtà. Il modesto funzionario zarista si accerta con circospezione che il suo cameriere Pëtr detto Petruška non sia in casa e apre un cassetto, cavandone un portafoglio, da cui estrae settecentocinquanta rubli, una bella sommetta che egli contempla “con cauto godimento”. È ora di prepararsi: Goljàdkin va a cercare il cameriere, un “bestia screanzata capace di far uscire dai gangheri chiunque” e lo trova che chiacchiera oziosamente con alcuni lacchè al portone: sono arrivate la livrea e la carrozza che il consigliere ha affittato per quel giorno. Bene. Lui e il cameriere si lavano, si radono e si vestono più eleganti che possono (Pëtr con la suddetta livrea, Jàkov col suo abito migliore, un po’ liso ma elegante), poi l’ineffabile Petruška si mette alla guida della carrozza, Goljàdkin sale e i due si avviano per le strade di Pietroburgo. Nonostante il freddo e l’umido, l’uomo apre i finestrini e si mette a osservare – non senza una certa apprensione – i passanti dall’uno e dall’altro lato della via. Scorge due giovani colleghi che lo guardano con stupore e questo lo mette decisamente di cattivo umore, poi la sua carrozza incrocia addirittura il calesse di AndrèJ Filìppovic, direttore di sezione nell’ufficio in cui presta servizio anche Goljàdkin in qualità di vicecapostanza. Salutare o no? Farsi riconoscere o no? Goljàdkin decide di fingere di non essere lui, sfacciatamente. Il superiore lo osserva perplesso. La carrozza si ferma davanti al palazzo in cui ha lo studio Krest’jàn Ivànovic, il dottore di ampie vedute che ha in cura Goljàdkin. Costui sale le scale d’un fiato, quasi fa irruzione nello studio del buon dottore e lo sommerge di parole, esponendo alcune sue tesi un po’ paranoiche. Fatto questo, come se niente fosse si reca a fare acquisti: ha o non ha in tasca ben settecentocinquanta rubli tutti da spendere?

Accolto molto freddamente dalla critica del tempo e tuttora considerato un’opera minore, Il sosia invece era tenuto in gran conto da Fëdor Dostoevskij, che lo riteneva uno dei suoi capolavori. Scritto tra l’estate 1845 e il gennaio 1846, apparve sulla rivista “Annali patri” un mese dopo, ma vent’anni più tardi – anche per effetto delle inattese critiche poco benevole ricevute – fu pesantemente rivisto dall’autore prima di essere finalmente pubblicato in volume. Nel 1877, a suggello della traiettoria letteraria dell’opera, Dostoevskij scrisse: “Quel racconto decisamente non mi è riuscito, ma l’idea in esso contenuta era abbastanza luminosa e io non ho mai introdotto in letteratura nulla di più serio di quell’idea”. Pesantemente influenzato dallo stile di Gògol’, questo romanzo breve è ben fotografato da quanto scrive Olga Belkina: “Nella nebbia dell’inverno pietroburghese ogni cosa perde i suoi precisi contorni e si frantuma fra realtà e sogno”. Le grottesche avventure di questo piccolo burocrate zarista afflitto da disturbo dissociativo dell’identità sono raccontate senza concedere al lettore il beneficio di un punto di vista oggettivo sul mondo, e questo ovviamente spiazza, inganna: la famosa “idea” di cui lo scrittore russo si diceva così fiero è in fondo questa, dare voce alla crisi d’identità dell’uomo moderno. Come scrisse il critico Bachtìn, “Tutta l’opera è costruita come un vero e proprio dialogo interiore di tre voci entro i limiti di un sola coscienza che si è scissa”. Goliàdkin è un misfit, un piccolo uomo sconfitto, ma in un certo senso anticipa molti memorabili personaggi dostoevskijani: ed è forse questo il suo merito più grande.