
L’anno scolastico è già iniziato da un po’ quando, in un pomeriggio di novembre, la corriera arriva nella piazza di B., un piccolo paese della Sicilia. Attilio Forra ha in tasca la nomina del Provveditorato, in cui c’è scritto che farà il supplente di inglese per i prossimi undici mesi. È deciso a voler dare una svolta alla sua vita, il quarantenne Forra, che fino a pochi giorni prima era impiegato all’ufficio anagrafe della sua città. Una vita grigia, sempre uguale, alimentata da strane e indefinibili inquietudini, che alla fine lo ha spinto verso la decisione di rinunciare per un anno al suo impiego e gettarsi in questa nuova avventura. Un nuovo esordio. Già la sera dopo Forra viene introdotto dal preside Leone al circolo dei signori, dove viene accolto con una pigra curiosità mista a indifferenza. “Del resto la silenziosità e l’immobilità di Forra erano gradite a quei signori: un uomo che forse nulla di concreto, nessun lume, nessuna idea aveva tratto dalla vita. E forse c’era qualche magagna; anzi, c’era, senz’altro; quale, qui stava il busillis. Ma nessuno intendeva rompersi il capo per lui; la curiosità a suo riguardo era poca.” Il paese, dunque, non si interessa a Forra, né il supplente si appassiona alla sua nuova condizione. Ogni nuova idea, ogni progetto, si dissolvono miseramente. Benché l’attività di docente lo appassioni “si accorgeva di mettere in quel lavoro la parte dell’animo a lui meno nota, quasi estranea.” Forra è in attesa di un avvenimento metafisico, una sorta di rivelazione che, pensa, possa dare un senso alla sua vita, ma – nell’attesa che tale evento si manifesti – la sua esistenza pare votata all’inerzia. Così, in un paese chiuso e gretto che gli appare diffidente e ostile, l’uomo consuma i suoi giorni nel desiderio di essere qualcuno, alimentando le sue velleità filosofiche…
Il supplente venne pubblicato per la prima volta nel 1964 da Vallecchi e ora lo ritroviamo in una nuova collana delle edizioni Isbn curata da Guido Davico Bonino e dedicata alla riscoperta di autori italiani ingiustamente dimenticati. Angelo Fiore (1908-1986), come il protagonista del romanzo, lavorò come impiegato statale e come insegnante di inglese, alternando queste attività a quella di romanziere. Palermitano di nascita, venne scoperto da Geno Pampaloni e pubblicò vari romanzi, l’ultimo dei quali nel 1981. La sorte ha voluto che, al di là della stima di molti colleghi e critici illustri, Fiore non ottenesse mai un grande successo di pubblico, probabilmente perché la “sua” Sicilia è molto lontana da quella raccontata dai grandi scrittori siciliani suoi contemporanei. Nei romanzi di Angelo Fiore non si parla di mafia né di delitti d’onore, i suoi temi sono esistenziali e lo avvicinano, dunque, ad uno stile letterario più mitteleuropeo. La sua scrittura si regge su una prosa secca e realistica, caratterizzata da un fraseggio breve e aspro non privo, però, di aperture liriche. Il suo stile è stato paragonato a quello di Pirandello, Tozzi e Musil. Come scrive Geno Pampaloni: “I suo personaggi sono costretti nel cerchio di un destino mediocre, di cui hanno oscura coscienza; ma la loro vita è percorsa da presentimenti, allarmi, allusioni, minacce, passioni meschine e calcolatrici e, insieme, da indistruttibili utopie.” Un’ottima occasione per riscoprire un romanzo e un autore che, negli anni della sua attività letteraria, ha forse pagato il prezzo di essere troppo moderno.