
Aprile 1942. Si soffoca, dentro i vagoni. Il contatto tra le persone che vi sono rinchiuse, sudice di feci e urina, è insopportabile e per resistervi Lale, un ebreo slovacco che da giorni viaggia in uno di quei convogli per espressa condanna delle leggi razziali disposte dalla Germani nazista di Adolf Hitler (com’è accaduto agli altri disperati passeggeri), deve ricorrere a tutta la sua forza di volontà. Quando il treno si ferma, le persone lì stipate scendono sotto la minaccia di uomini in divisa che urlano. Sono giunte a destinazione: Auschwitz. Senza nemmeno il tempo di capire, vengono prima sfregiate con un numero identificativo tatuato sul braccio, spogliate dei loro vestiti, rasate e obbligate a indossare degli stracci, poi condotte in baracche strette e asfissianti, costrette a zittirsi e a ubbidire ciecamente ai loro aguzzini. Lale è incredulo. Tutto quello che lo circonda ha la forza di una serie di pugni alle viscere, forti, spappolanti, continui. Ma lui si concentra su un unico pensiero: resistere per tornare a casa. Così, se anche si trova costantemente di fronte alla morte, vestita dei corpi dei prigionieri straziati dai gas che gonfiano gli stanzoni in cui la carne è stata cristallizzata in smorfie di raccapricciante dolore, dalle pallottole sparate dai carcerieri per capriccio, dal fuoco dei forni crematori in cui le membra sono state ridotte in cenere vilipesa, riesce ad andare avanti, instaurando importanti rapporti amicali, innamorandosi (di Gita, anche lei prigioniera), aggrappandosi alla vita…
Adolf Hitler, divorato dal tarlo dell’odio e condannato a muoversi nell’oscurità perché ripudiato dall’amore e dalla pietà, fu il mandante di un’abominevole mattanza umana. In preda a un folle delirio di onnipotenza, si convinse che gli uomini non fossero tutti uguali e che alcuni (gli ebrei più di tutti, ma anche gli zingari, gli omosessuali, i prigionieri di guerra sovietici) meritassero di essere cancellati dalla faccia della terra, perché impuri e indegni di essere nati. Così dispose la costruzione di aree di prigionia, campi (di concentramento) in cui gli uomini da “cancellare” vennero internati, umiliati, martoriati, marchiati, violentati nel corpo e nello spirito, privati dei loro affetti e di ogni bene personale, ridotti a ombre arse dal sole e scorticate dal gelo. Milioni di questi uomini caddero falciati dall’odio, rendendo l’anima a Dio. Per altri, invece, la vita riuscì a sopravvivere, condannando l’odio a bruciare se stesso. La storia di Lale è la testimonianza di una di queste vite sopravvissute a quello sterminio di massa ed è un’intensa celebrazione dell’amore, della forza d’animo, del coraggio di guardare avanti contro il giogo della segregazione. Altre testimonianze hanno raccontato dei campi di concentramento e, come quelle, anche questa va letta dieci, cento, mille volte, per non dimenticare quanto orrore può scaturire dalla cattiveria che vive nell’uomo e per onorare la memoria di tutte le vite che da quella cattiveria sono state soffocate.