
Si fa corpo e verbo un poco delirante, il Covid, nel primo dramma (Non rinuncio a te per un pipistrello). E impietosamente scava nelle ossessioni degradanti di un’umanità allo sbando. Frastornata dall’esplosione dell’epidemia, ma già ben prima infetta nell’anima dal morbo del nichilismo. Obiettivo prioritario del virus monologante è quello di far rinsavire gli uomini, e ricordare loro che il gioco della vita sta per finire. Per tutti: sovrani, capi di governo, gente comune. Inutili il confinamento o l’insensato aggrapparsi alle vecchie futilità… Protagonisti di La collina di Euridice, il secondo testo, sono l’architetto Piero e la moglie Carla. Quando nasce la figlia Valeria, la coppia vive un momento di intensa euforia, vagheggiando un futuro felice. Ma venti anni dopo il loro disegno si rivela del tutto illusorio: Valeria, appena laureata, muore in un incidente stradale. I genitori imputano la tragedia al fidanzato Paolo e come eremiti si rifugiano nella loro casa in collina. Qui tentano di rievocare lo spirito della defunta in una seduta spiritica… Infine, Ponte all’Angelo: Lui, un grottesco archeologo, ed Enrico, ossia l’Angelo, si legano con uno strano rapporto. Enrico era in realtà un vecchio compagno di Lui: Giacomo, morto precocemente di cancro. La sua riapparizione sconvolge l’esistenza dell’archeologo, consumata tra frettolosi amplessi domenicali con la sua anziana compagna-collega-amante e una noiosa attività professionale. Alla fine egli uccide l’amante e si suicida sopra il Ponte dell’Accademia. Enrico, privato delle sue ali, può così spiccare il volo assieme a Lui, che di quelle ali si è impossessato dopo avergliele tagliate. Con questa ascensione verso il nulla si compie l’ultima tappa di una blasfema via crucis…
Un virus saggio, quello di Puppa. Al di là delle oscillazioni, tra amaro sarcasmo, irridente ironia, feroce denuncia. Anche incoerente e narcisista, questo sadico e umorale Covid dalla labile identità. Forse migliore degli uomini che falcia. Perché smaschera le ipocrisie annunciando un’apocalisse apparentemente grottesca. O meglio, umoristica, in senso pirandelliano. Il tono scanzonato e la satira trascinano così in un unico contenitore l’intera umanità. Tutti debbono prepararsi a morire perché non ci sono esorcizzazioni o mistificazioni che tengano. Ridicole le preghiere questuanti; le invocazioni di un Pontefice che si ostina, come tanti, a non capire che il cielo è spopolato di divinità; nevrotica la dipendenza dalla televisione, ridotta a fabbrica di menzogne e narcotizzante strumento del potere. Raccomanda, il virus, di rassegnarsi. E affrontare nel modo giusto l’inesorabile fine che non prelude a un nuovo inizio. Sono comunque personaggi disturbati i protagonisti di questa drammaturgia, sia che si presentino sulla scena, sia che vengano soltanto evocati. Così è per l’architetto Piero e la moglie Carla, lui professionalmente appagato, lei finalmente madre. Entrambi assillati dall’ansia del successo economico, e dunque emblematici rappresentanti di una borghesia sfatta che proprio sul denaro investe la propria esistenza. Restando intrappolati nella disperazione quando scoprono che non tutto è denaro. Allora in scena irrompe una spiazzante sur-realtà: sedute spiritiche, angeli ermafroditi, virus organizzati come un esercito. Sullo sfondo, un’umanità dilaniata tra eros e Thanatos, che vorrebbe cancellare vanamente il lutto dal suo orizzonte. Non c’è però reticenza o illusione che tenga: la morte sovrana sulla scena e nella vita.