
Ha un sogno. Un giorno vuole uscire di casa e andare a passeggio per la strada in mezzo alla gente con le mutande in testa facendo finta di niente, per vedere l’effetto che fa. Se qualcuno lo fermerà dicendogli che ha delle mutande in testa, replicherà che non è affatto vero, chiederà al suo interlocutore dove di solito lui porti il cappello, e quando quello gli risponderà che lui il cappello lo porta in testa gli farà presente che dunque anche quello che lui ha in testa non può essere null’altro che un cappello. È l’uso che si fa delle cose, del resto, che ne cambia la sostanza. E lui si sente sopraffatto e accecato dall’inutilità delle cose. Il fatto che in pratica per nulla esista una risposta chiara e definitiva, che tutto sia in definitiva vago e discutibile, che ogni cosa, dall’esplosione dell’universo in poi, possa essere legata da un filo invisibile o mero frutto del caso cieco e del niente cosmico, che di volta in volta improvvisamente possano sorgere nuove domande lo tiene infatti bloccato nella più completa abulia, inchiodato al letto. E dire che da bambino era uno a cui piaceva fare le linguacce. Salvo poi correre a nascondersi…
Scrittore, appassionato ed esperto di cinema, direttore di un trimestrale, divulgatore chiaro e competente e molto altro ancora, Davide De Lucca ha una prosa filosofica ma semplice, chiara, diretta, immediata, interessante, raffinata, niente affatto superficiale, misurata, potente, consapevole, sapida: questo romanzo-finta autobiografia-mockumentary, agile e dalla solida tenuta narrativa, connotato in maniera precisa e puntuale per quel che concerne ogni suo aspetto, unisce due sue passioni e abilità, connettendo dimensioni che sono di per sé già fra di loro legate, ma rafforzando i rapporti reciproci. Non esiste infatti cinema, nemmeno quello muto, che non abbia una solida struttura narrativa, e dunque, in un certo qual senso, una scrittura: e del resto sia la settima arte che la letteratura, anche quando inventano mondi altri, non solo parlano sempre ai propri fruitori, in primo luogo contemporanei e poi a quelli che si spera verranno, perché ci si augura che la memoria di un’opera sia conservata e duratura, ma sviscerano la vita nella sua complessità. L’esistenza di Aldo Castori, enigmatico sceneggiatore di un film di culto, incarnazione dell’archetipo novecentesco dell’inetto che vive suo malgrado, misantropo ironico ed eterno incompiuto, è il fulcro di questa narrazione che indaga la vanità delle cose terrene e la caducità di quelle umane, divertendo e inducendo alla riflessione.