
Primi anni Settanta. Michael Ledeen, giovane ricercatore della University of Wisconsin-Madison - dove si è laureato con lo storico ebreo-tedesco George Mosse - e autore di un importante saggio su Benito Mussolini e il suo progetto di una Internazionale Fascista, si è trasferito da poco a Roma come visiting professor e come corrispondente per “The New Republic”. Viene scelto dallo storico Renzo De Felice e dal suo editore Laterza per questa lunga intervista destinata a fare rumore. Per prima cosa De Felice indica gli storici Chabod, De Luca e Cantimori tra i suoi maestri e modelli. Il suo percorso storiografico, proprio a causa della collaborazione con quest’ultimo, parte dal giacobinismo per poi giungere allo studio del fascismo, probabilmente per “un certo gusto, un certo interesse psicologico e umano per un determinato tipo di personaggio dalla coerenza fosca e luciferina, ma, a suo modo, disinteressata”. Si era allora negli anni Cinquanta e non era ancora possibile accedere alla documentazione sul Ventennio: “bisognava decidersi a prendere di petto il periodo del fascismo”, cominciando ad analizzarlo non politicamente ma storicamente, “col maggior distacco, con la maggior serenità possibile” trattandosi ormai di una pagina chiusa, di una realtà morta e sepolta, “irresuscitabile”. Partendo da una ricerca sugli Ebrei durante il fascismo, De Felice ebbe accesso agli archivi statali e governativi degli anni Venti, Trenta e Quaranta, fino a quel momento off limits per gli storici. Di qui l’idea di scrivere una biografia di Benito Mussolini: “(…) Se avessi saputo con certezza (…) che cosa questo impegno avrebbe voluto dire nella mia vita, ebbene non so se l’avrei fatta”. Confessa infatti lo storico: “Molta gente mi chiede se non mi è venuta la nausea, se questo Mussolini, questo fascismo non mi escono dagli occhi: debbo dire di no, perché anche negli episodi più piccoli, più marginali, c’è la spiegazione di tante cose, non solo di allora ma direi anche di oggi. E questo mi affascina e mi terrorizza al tempo stesso”…
A più di quarant’anni dalla sua prima pubblicazione, datata 1975, torna in libreria la celebre e controversa Intervista sul fascismo di Renzo De Felice. Lo storico aveva all’epoca accolto con entusiasmo la proposta del suo editore di realizzare un libro-intervista, con la speranza che le sue risposte potessero scatenare un dibattito e attirare l’attenzione del grande pubblico e dell’ambiente accademico sul suo lavoro storiografico, che lui reputava sottovalutato e male interpretato a causa di pregiudizi politici. Il punto-cardine dell’intervista (o perlomeno quello più dibattuto) sta nella famosa distinzione che De Felice fa tra “fascismo movimento” e “fascismo regime”, intendendo così sottolineare la tensione, anzi il contrasto tra ideali iniziali, progetto politico e “carica interiore” da una parte e brutale gestione del potere dall’altra. Da una distinzione del genere consegue inevitabilmente l’assenza di una condanna integrale a prescindere dell’ideologia fascista. Come scrive Giovanni Belardelli nella sua prefazione, questo “contravveniva a uno dei criteri con cui gran parte della cultura italiana guardava da tempo alla storia del Novecento: mentre il fascismo era giudicato in primo luogo sulla base dei suoi atti, il comunismo veniva valutato soprattutto in considerazione delle sue promesse e dei valori proclamati (l’abolizione dello sfruttamento, l’uguaglianza etc.)”. Nel 1975, questo approccio fu bollato come revisionista da molti, che ritennero Intervista sul fascismo un tentativo – anche abbastanza maldestro – di riabilitazione del Ventennio che rischiava di produrre “tra i giovani (…) guasti assai gravi” e De Felice da quel momento in poi una figura ormai compromessa e schierata. Unica (o quasi) eccezione a sinistra fu Giorgio Amendola, che su “L’Unità” scrisse parole molto importanti: «In realtà, sotto il disgusto morale ad affrontare la storia del fascismo si avverte spesso l’imbarazzo a fare la storia dell’antifascismo, che è la storia di un movimento che ebbe, accanto a momenti di alta tensione morale e politica, brusche cadute. Si preferisce ignorare tali limiti e debolezze per mantenere una versione di comodo, retorica e celebrativa, che non corrisponde alla realtà». La polemica, sebbene tutto sommato abbastanza pretestuosa vista a distanza di decenni, contribuì senza dubbio al successo del libro, che ottenne una grande visibilità e vendette più di 100.000 copie. Riletta oggi, l’intervista colpisce più che per i contenuti – pur senza dubbio interessanti – per l’atteggiamento di De Felice, nelle cui risposte si leggono in trasparenza ansia e frustrazione, un quasi disperato bisogno di approvazione.