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Intervista ad Alcide Pierantozzi

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Sorprendente, innovativo, ribelle, spiazzante a - perché no - scostante come un giovane ha il dovere di essere, Alcìde ha appena esordito nel panorama letterario. Sarà anche uno tra tanti giovanotti di belle speranze, ma sin da subito abbiamo avuto la percezione che in lui ci sia qualcosa di particolare, una scintilla, il marchio del predestinato. E allora abbiamo voluto intervistarlo per voi.




Nel tuo romanzo unoindiviso qual è il peso specifico di significante e significato?
Credo che si discostino molto, diversamente da quanto imporrebbe la regola del cosiddetto “romanzo riuscito”. Lo stile, in questo mio libro, si discosta dai precetti del contenuto, direi quasi che si afferma contro di essi. Anzitutto c’è una contraddizione ponderata che definirei “generica”, cioè – restando nel genere letterario codificato – si ha uno stile alto-medio per contenuto medio-basso; ma anche qui subentra un’altra contraddizione di carattere interno, perché il contenuto medio-alto (ad esempio quei discorsi da trattatello filosofico, i dialoghi esistenziali fra i protagonisti eccetera) si accompagna a uno stile tragico-elegiaco. Poi c’è quella che chiamo “contraddizione specifica”: nella parte del romanzo in cui parla Taiwo, il cattivo dei gemelli, il paragrafo è legato e internamente spezzettato da un’opprimente punteggiatura alla Céline, perché il male, nelle sue tante sfaccettature, presenta una compattezza che il bene dell’altro non ha. Quindi per l’altro, Kehinde, la narrazione sarà più buona, nella seconda parte, e tenue. Il significato è comunque ciò che più mi preme, nella scrittura, e lo stile è prettamente di funzione. Vede, in Italia c’è un idea dello stile assolutamente sbagliata che nasce con gli scritti di Cesare Beccaria e l’importanza che ha avuto Goethe nella formazione di alcuni scrittori che ci hanno preceduto. Questo ci ha spinti a badare all’originalità, alla decadenza, forse al “sublime basso” di cui ha parlato la critica letteraria più recente. L’idea romantica dello scrittore, oggi impensabile, continua ad affascinare certi scriventi che lavorano su certe estetiche assolutamente gratuite. Per me l’estetica non esiste, e se per significante si intende scolasticamente una costruzione della frase, lingua, termine, io sono per un’estetica del rozzo, anche se questo non trapela dalla mia scrittura. Epperò, se nota, lessico e sintassi non sono mai ineccepibili, ci sono ingenuità volute… io amo molto Stendhal, di cui è risaputo scrivesse male, perché ha completamente ribaltato il concetto di stile inteso come sinonimo di scrittura. Anche se poi, ribaltandolo, lo ha paradossalmente riproposto.

Kehinde e Taiwo: metafora? Metafora di?
Metafora classica della dicotomia tra bene e male, tra anima e corpo. Metafora dell’invettiva platonica: ergo la bellezza non esiste, l’estetica è meschina. Metafora dell’uomo che, me compreso, predica bene e razzola male. Più che di metafora, però, io parlerei di allegoria. Infatti nell’esposizione faccio uso di metafore di contorno, piuttosto banalotte (Viviamo attaccati – dicono i protagonisti – “come questo paragrafo”) mentre invece il rimando a un qualcosa di assoluto e ontologico è evidente.

Qual è il senso della violenza nel tuo romanzo? Esiste un estetismo dello splatter? C’è in qualche modo il manifesto di una filosofia dell’orrore in unoindiviso?
Il senso della violenza è sempre lo stesso ormai da secoli: sensibilizzare il fruitore-spettatore ad essa, e portarlo a capire che certi gesti, certi atti e certe parole possono realmente annientare l’altro. Nessun manifesto di una filosofia dell’orrore; d’altra parte la filosofia è orrorifica di per sé perché fa i conti con l’assurdo, con l’angoscia e con l’impossibile. L’estetica, come le dicevo, è prettamente funzionale alla narrazione e ancor più ai concetti, quindi me ne disinteresso quando scrivo.

Quanto hanno contato le tue radici provinciali nella scrittura di unoindiviso?
Tanto, ovviamente. Sono cresciuto in campagna e da buon “campagnolo” mi disinteresso di tutto quanto è artificioso, plastificato, concentrato e retorico. La mia scrittura è piena di ossessioni agresti: gli insetti, la terra, le uova, i maiali, i volti antichi, il pane delle nonne… Credo che l’orrore non possa esistere all’interno della città, almeno per come lo intendo io, sempre legato al concetto di assoluto quindi preistorico quindi sacrale.

Quali sono gli scrittori che consideri punti di riferimento o addirittura modelli, se ce ne sono?
Tantissimi, quasi innumerevoli. Da Rousseau a Pasolini, da Dostoevskij a Bulgakov. Poi, in ordine sparso, Kafka, Gramsci, Verne, Rimbaud… Fondamentali, però, nella mia attuale formazione sono tre filosofi: Tommaso D’Aquino, Dun Scoto e Agostino D’Ippona. Mi permetto, anzi ho il dovere di aggiungere un altro nome, quello di Oriana Fallaci. Quasi nessuno, tra gli scriventi di casa nostra, ha speso mezza parola sulla morte di questa scrittrice importantissima, è una vergogna. È vergognoso che le presunzioni politiche dell’ultimo dei componenti di Nazione Indiana scavalchino pure l’ossequio doveroso per la morte di una Grande. Allora ci penso io, signor nessuno, a salutare Oriana Fallaci e a scrivere pubblicamente che sentiremo la sua mancanza perché tra non molto ci resteranno solo gli ultimi di Nazione Indiana, le combriccole milanesi e i sorrisetti tra compagni.

In una recente intervista hai dichiarato di leggere un libro al giorno. Benvenuto nel club dei mangialibri! Già che ci sei sparaci 3 o 4 titoli tra i più interessanti intercettati di recente...
Intercettati di recente… Fammi pensare. Primo fra tutti Il muro di Pietra di Severino, una riflessione nuova e al contempo quasi preistorica sul senso dell’Occidente; poi Lei, che nelle foto non sorrideva di Cinzia Bomoll, un romanzo che sa rielaborare perfettamente una certa narrativa italica post-beat, e Sorvegliato dai fantasmi del mio caro amico Gabriele Dadati: un libro cauto, profondo, stupefacente. Poi mi piacciono Marcello Fois, Massimiliano Parente e Paola Presciuttini, anche loro ragazzi di grande talento.

I LIBRI DI ALCIDE PIERANTOZZI