
Prima che Aldo Simeone incontri i suoi lettori a Più Libri Più Liberi 2019, approfittiamo della sua disponibilità per un appuntamento telefonico. L’occasione è buona per parlare del suo notevole romanzo d’esordio e ci dà la possibilità di approfondire alcuni aspetti interessanti e soddisfare le curiosità che nasce dalla lettura. Folclore garfagnino, antiche leggende e brume invernali si mescolano alla realtà cruda di una guerra passata proprio da lì. Ma i racconti della tradizione della Garfagnana e la linea Gotica sono solo due degli ingredienti di un libro intenso e che invoglia a saperne di più.
Aldo, cosa ti lega ai monti della Garfagnana? Sembra, leggendo tra le righe del tuo Per chi è la notte, un luogo davvero pieno di magia…
Sì, è proprio così: è un luogo dove andare a cercare la magia nel vero senso della parola. Da pisano, durante l’infanzia, ho frequentato i monti toscani. Era tutto sommato però una conoscenza molto superficiale. La Garfagnana l’ho riscoperta in maniera seria anni fa tramite alcuni amici di famiglia, che avevano una casa di famiglia in quelle zone, a Minucciano, dove trascorremmo un fine settimana. Una vecchia abitazione purtroppo abbandonata ma molto affascinante. Proprio quella casa è diventata la dimora di Francesco, così come i luoghi che la circondano: la strada cui vi si accede, il bosco alle spalle. In realtà, di quel fine settimana non ho ricordi particolari, furono giorni piacevoli eppure l’immagine di quell’antica casa ha scavato dentro di me e poi lentamente è tornata in superficie, complici anche alcune pubblicazioni sul folclore garfagnino grazie alle quali ho scoperto gli streghi.
Il Bosco delle sorti, gli streghi, sono nomi evocano antiche leggende tramandate a voce dai nonni dei nonni. Sono racconti che fanno parte della tua infanzia?
Non della mia famiglia, ma è proprio grazie allo studio delle pubblicazioni di cui ti ho accennato che ho scoperto di essere, come Francesco, uno strego anche io. Secondo il mito si nasce streghi tra il 24 e il 29 giugno e io sono nato il 25. Sono tradizioni che, anche grazie allo studio di questo libro, i miei famigliari e amici hanno riscoperto, perché sono racconti che si stavano dimenticando.
Da dove ha origine il titolo?
“Per chi è la notte” è proprio la domanda che, secondo il folclore, gli streghi fanno a chi incontrano. Anche la risposta esiste davvero ed è diversa da quella che io ho dato nel romanzo, anche perché è molto dialettale, garfagnina, e dice: per me, per te e per chi non può camminare di giorno.
Come mai tu, che sei nato negli anni Ottanta, hai scelto di raccontare una storia ambientata quarant’anni prima, durante la Seconda Guerra Mondiale?
L’idea principale da cui sono partito era legata al concetto di paura. Le paure, per me, sono quelle infantili. Da bambino avevo il terrore di perdermi nel bosco. Vivevamo a Marina di Pisa e alle nostre spalle c’era il bosco che per me rappresentava il mistero, mi spaventava ma allo stesso tempo mi attraeva, proprio come accade al piccolo Francesco. Quando poi ho visto il paese di Minucciano, i suoi boschi, ho sentito che il romanzo avrebbe dovuto essere ambientato proprio lì, in quel luogo isolato e circondato dai boschi. Ma dire Garfagnana significa anche richiamare alla memoria la Seconda Guerra Mondiale, poiché da lì passava la linea Gotica. Allora ho deciso di unire assieme due diverse paure, quella fanciullesca e quella adulta, causata dalla guerra. La storia quindi si è spostata in quel preciso periodo storico e in quel luogo.
Nonostante si faccia riferimento a un periodo storico passato, ci sono molte frasi che ci fanno riflettere sull’attualità che stiamo vivendo e non solo. Ti faccio un esempio: “Ricorda che la legge e la giustizia sono due cose diverse; non sempre vanno d’accordo, e pure la colpa e il peccato”. Oppure “Se non fosse difficile scegliere il bene, non ci sarebbe virtù”…
È il dramma di Antigone e questi sono temi perennemente attuali, è vero. Narrando di quel momento storico volevo ricreare uno sfondo che desse credibilità a queste mie riflessioni più vaste e che hanno un accento sul presente. Scriviamo infatti per il presente, per il domani ma di certo non per ieri. Avevo in mente in particolare un tema, che il problema della scelta. Scegliere da che parte stare non è così semplice. Osservando il passato possiamo dare dei giudizi storici. Negli anni a cui faccio riferimento c’era il progresso e dall’altra la reazione a questo progresso. C’era l’intolleranza, l’ingiustizia, ma quando si era immersi in quell’atmosfera non doveva essere così facile giudicare. Inoltre ho fatto tesoro di alcuni racconti fatti da mio padre, che durante la Guerra era un bambino e che ricorda come ad esempio i partigiani non sempre venissero considerati dei salvatori. Ecco, io ho scelto di immergere il protagonista, Francesco, in questo caos.
C’è un’altra frase che io giudico molto forte. Ed è quella che dice: “la guerra gli aveva insegnato che non si può essere pietosi quando si è certi di stare nel giusto. Per perdonare ci vuole il dubbio. Sapere è in qualche modo il contrario di capire”. Perché, secondo te, non ci può essere perdono davanti a una cruda ed evidente verità?
In questo caso avevo in mente il fanatismo, cioè l’assoluta convinzione di aver ragione e che il resto sia torto. Dunque, la sicurezza incrollabile nelle proprie convinzioni fa sì che non vi sia alcun dubbio. Quando si è dentro questo schema mentale e non si concede che l’altro possa avere le proprie ragioni, allora non si concepisce il perdono e si è intolleranti.
Un altro tema profondo che affronti è quello dell’assenza, che non è di per sé un vuoto ma è qualcosa di concreto. Una cavità dentro cui si adagia il tempo creando l’impronta di un fossile. È un concetto che si è sviluppato durante la scrittura del romanzo o è qualcosa che appartiene al tuo vissuto?
Riguarda sicuramente anche me. In effetti, il romanzo è pieno di assenze, il paese che scompare, così come il padre di Francesco e io condivido molte cose del protagonista. I vuoti derivati da qualche cosa che conoscevi, che avevi e che ti è venuta a mancare sono diversi da quelli di qualcosa che non si è mai avuto e quindi restano come presenze forti.
I protagonisti del tuo romanzo sono principalmente i due bambini, Francesco e Tommaso. Il primo è un ragazzo con un carattere complesso. Non ha amici, la storia di suo padre lo fa vivere nel dubbio di quale sia la parte giusta. Come hai costruito la sua storia e com’è entrato nella tua testa il personaggio di Tommaso, che sembra un personaggio secondario ma che invece non lo è?
È vero, ci si sofferma più spesso sul personaggio di Francesco e meno su quello di Tommaso. I due nomi sono quelli di un mio amico che si chiama Francesco Tommaso. Lui mi faceva notare che sono due nomi antitetici, perché Francesco è il santo della fede ingenua, mentre Tommaso è il santo che se non vede non crede, quindi quello del dubbio e della ragione. Proprio per contrasto mi è venuto in mente questo personaggio, una specie di Guglielmo da Baskerville, a volte più adulto della sua età. Certo resta un personaggio ambiguo riguardo alla sua provenienza e persino la sua natura non è chiara e questa ambiguità mi ha permesso di dargli delle caratteristiche molto marcate.
In effetti è un personaggio molto affascinante, che induce anche alla malinconia e alla pena per come appare e scompare all’improvviso e per come soffre…
Gli americani dicono che una narrazione è fatta di tre momenti. Un uomo sale su un albero, gli tirano le pietre, scende dall’albero. Se scende vivo è una commedia, se scende morto è una tragedia. Ecco, in una narrazione si può rinunciare alla salita e alla discesa sull’albero, ai due momenti estremi, ma non si può rinunciare alle pietre. Io, a Tommaso, di pietre ne ho tirate tante. A tutti e due i protagonisti, in verità.
Cosa ti ha spinto a scrivere un romanzo? Il tuo lavoro alla Loescher ha qualche attinenza?
In realtà il mondo della editoria scolastica e della narrativa purtroppo non si parlano e non si conoscono nemmeno. Però il mio lavoro mi ha messo di fronte a due cose fondamentali: la prima è la consapevolezza che quando si scrive qualcosa si deve avere in mente un lettore. Cioè occorre pensare all’utilità di quello che si fa. Il mio lavoro mi ha insegnato che bisogna avere praticità, un obbiettivo. La seconda è la costrizione all’essere diretti, semplici, chiari, che non vuol dire rinunciare all’eleganza, ma evitare certe costruzioni pesanti, ciceroniane, che a volte la scuola ti insegna anche premiandoti.
Hai pensato questo libro anche per un pubblico di ragazzini? Lo hanno già letto e quali sono state le loro reazioni?
Non ho pensato a loro come pubblico, in verità non ho pensato a nessun pubblico. Mi hanno annunciato un giro di incontri nelle scuole e l’idea mi piace tantissimo. Però, durante alcune presentazioni ho notato la presenza di alcuni giovani e questo mi ha rincuorato, perché pensare che un ragazzo legga un romanzo di questo genere mi rende orgoglioso.