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Intervista ad Aleksandar Hemon

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Parlare con Aleksandar Hemon è parlare con qualcuno che si è dovuto reinventare in un altro Paese, in un’altra lingua. Bosniaco di Sarajevo, si trovava negli Stati Uniti nel 1992 quando lo scoppio della guerra in Jugoslavia lo ha costretto a rimanere. Per questo, l’intervista che ci ha rilasciato al Festivaletteratura di Mantova 2022 ha come argomenti principali il linguaggio e la memoria: la casa di Aleksandar è la lingua.



Tu sei nato a Sarajevo e vivi da più di venti anni negli Stati Uniti. Scrivi ancora in bosniaco o ormai la tua lingua è l’inglese?
Ho scritto molto in bosniaco, è la mia lingua madre. Ho dovuto però cercare il mio spazio linguistico dove sentirmi a mio agio; questo è quasi equivalso a inventare la mia versione dell’inglese, un inglese mio, per cercare di trovare uno spazio concettuale dove mi sarei sentito a casa per il semplice fatto che l’avevo inventato io.

Nel tuo I miei genitori / Tutto questo non ti appartiene scrivi: “Limiti di mio linguaggio significano limiti di mio mondo, ma ora vivo in inglese, la lingua del disprezzo di sé”. Ci spieghi il significato di questa frase?
Questa è una citazione dal Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, un filosofo positivista; significherà forse qualcosa di diverso per lui rispetto a quello che significa per me o forse no. Quello che significa per me è che soltanto quello che posso dire e scrivere è il mio mondo, io posso stare soltanto lì, i limiti del mio mondo sono indefiniti, non sono chiari. La lingua mi serve per avere uno spazio, un potere d’azione.

Fondamentale nei tuoi libri è il tema della memoria che narri mischiando malinconia e ironia, due emozioni che sembrano un po’ in contrasto. Ce ne parli?
Hai ragione, la memoria svolge un ruolo molto importante nel mio lavoro sia come argomento sia come metodo. Bisogna capire che cosa significa non vivere in un Paese dotato di una continuità sociale, storica, in un Paese che non ha subito rotture negli anni. I Balcani sono una regione del mondo che ci ha abituati con grande frequenza alle rotture dell’ordine sociale, della Storia come delle istituzioni. Il rapporto con la cultura è ben diverso quando si è profughi, sfollati. Persone come noi non sono in grado di trasmettere alle generazioni successive denaro, proprietà immobiliari, influenze sociali; possono trasmettere soltanto etica, canzoni, racconti, ricordi e memoria. Quando i miei genitori sono andati in Canada avevano due valigie, nulla più, io quando sono andato negli Stati Uniti avevo due valigie, nulla più. Quindi il mio ultimo libro contiene le nostre proprietà, dentro ci sono le cose che ci identificano in quanto noi. Per quanto riguarda l’ironia, cito questo aneddoto. Nel 1997, dopo la guerra, sono tornato a Sarajevo per rivedere amici e parenti. Mi è stata raccontata la storia di una famiglia di dieci persone, queste persone durante l’assedio vivevano in un unico appartamento crivellato dai colpi di artiglieria, soffrivano la fame e avevano ognuno una bottiglia d’acqua per bere e lavarsi; un giorno il ragazzo più giovane, uscito per cercare cibo, torna con una patata, tutta raggrinzita: ovviamente non si poteva dividere in dieci parti, non serviva a nulla. Allora, non avendo il televisore, avevano messo questa patata al centro del tavolo e loro, tutti intorno, la fissavano. Nel raccontare questo episodio ridevano come pazzi e io mi sono chiesto come mai scherzassero in questo modo. Su questo io ho una teoria: noi esseri umani siamo biologicamente predisposti a tendere verso spazi sia concettuali, psicologici sia fisici dove abbiamo la possibilità di agire, dove abbiamo in mano la nostra vita, dove noi stessi possiamo prendere decisioni che ci riguardano. Dunque abbiamo noi stessi il diritto di raccontare la nostra vita, di scegliere noi stessi il significato e il senso che le vogliamo dare. La storia umoristica che ho condiviso significa: sono sopravvissuto, sono sopravvissuta, ho recuperato la mia capacità di agire e di decidere e quindi ora la racconto. Anche ironizzando, non certo per divertire l’ascoltatore, ma per celebrare l’aver recuperato il senso della propria vita.

Tuo padre è ucraino, che effetto ti fa in questo momento, l’invasione dell’Ucraina? Trovi dei parallelismi con quello che è successo nel tuo Paese?
I parallelismi ci sono e sotto tanti aspetti. E questo lo pensano anche tanti miei amici bosniaci che vedono il modo di operare di Putin e pensano che stia applicando lo stesso metodo di Milosĕvić. Cos’altro è l’occupazione da parte della Russia di un territorio come l’Ucraina asserendo che ci sono forze irredentiste e stabilendo le proprie basi lì per effettuare ulteriori conquiste? Non è questo il quadro della Jugoslavia dei primi anni Novanta? A tutt’oggi l’unico Paese che appoggia apertamente la Russia è la Serbia, dove addirittura la gente indossa maglie con la Z, simbolo dell’operazione speciale di Putin. Sono profondamente toccato da questa situazione anche perché mi trovavo nel Parlamento di Kiev quando è stata proclamata l’indipendenza. Russi e serbi cosa hanno fatto? Hanno stroncato la possibilità di costruire una nazione migliore, una nazione democratica, moderna, procedono con metodi e hanno creato istituzioni estremamente fasciste che attuano un genocidio, come ha attuato la Serbia. Detto questo, sono convinto che l’Ucraina vincerà, a condizione di non acconciarsi a una pace che non comporti la restituzione del Donbass e anche della Crimea.

I LIBRI DI ALEKSANDAR HEMON