
Il romanzo autobiografico d’esordio di Alessandra Mureddu solleva il velo sulla ludopatia, illuminando senza reticenze il mondo di coloro che ne sono affetti, i loro rituali, le loro miserie, le loro bugie, le loro solitudini. L’autrice vive e lavora a Roma e ha accettato volentieri di chiacchierare con Mangialibri.
Il tuo Azzardo ha suscitato interesse, un successo che premia te che con sincerità doni al lettore una storia vera. Come ti senti al centro di questa attenzione, tra lettori, firmacopie e presentazioni?
Molto bene, c’è un’affettuosità diffusa che contrasta con la solitudine e la durezza in cui mi muovevo prima. Il contatto con le persone anziché con una macchina, un pezzo di ferro, è la cosa più bella che mi porto via ogni volta dalle presentazioni. Tra l’altro – un particolare – mi sembra che la partecipazione sia per lo più femminile e questo mi colpisce molto perché nei gruppi di auto mutuo aiuto (Giocatori Anonimi) che frequento di donne ce ne sono pochissime (a differenza delle sale da gioco, dove eravamo invece sole e numerose).
Inizialmente eri una giocatrice sociale, al casinò e in vacanza. Una volta rientrata a casa tutto tornava normale: lavoro, amici, fidanzato e il gioco non c’era più. Poi cos’è cambiato? Dipende dall’apertura delle sale gioco cittadine? È il desiderio di ricreare quell’atmosfera spensierata, adrenalinica e vacanziera?
L’apertura delle sale da gioco secondo me ha fatto la parte più importante, ma io ci sono finita per salvare mio padre, da quando me le ha fatte vedere lui volevo capire cosa fosse quel meccanismo infernale che lo induceva a stare sempre lì togliendo sempre più tempo alla sua famiglia (in particolare a mia madre). A me è parso inizialmente un ambiente grottesco, quindi una sensazione diversa rispetto a quella che provavo in vacanza: le sale da gioco sono buie, senza finestre, con profumazione e suoni che stordiscono.
Tutta la tua vita viene risucchiata da questa febbre del gioco. Finiscono le relazioni affettive e la vita sociale, riesci però a mantenere il lavoro. È secondo te Azzardo un romanzo sulle debolezze che diventano padrone dell’animo?
Credo sia un romanzo sulle dipendenze e sì, sulle debolezze che diventano il motore del vivere. O meglio del sopravvivere. Tutta la mia vita è stata all’insegna di queste dipendenze: a cominciare da quella da mio padre, passando per quelle affettive nel rapporto con gli uomini, per finire con quella dal cane.
Nessuno parla nelle sale giochi, ognuno è racchiuso nella propria piccola isola di malessere personale. Il tema della solitudine dei giocatori è molto forte nel libro. Dalle tue parole ne esce un ritratto crudo e potente: quanta fatica ti è costato ammetterlo con te stessa e poi condividerlo con i lettori?
Scrivere mi è costata fatica – ho avuto lutti e problemi di salute durante la stesura del libro – ma a lavoro ultimato ho constatato che la condivisione mi fa bene, è un po’ la stessa cosa che succede nei gruppi di auto mutuo aiuto come Giocatori Anonimi: consegnare il problema a qualcun altro è iniziare ad ammetterlo e vedere che succede.
Il vero giocatore non ama vincere, ma perdere, per provare ancora sensazioni forti. È vero? Adesso che ti sei liberata da questo giogo, riesci a riconoscere dai tratti del volto un giocatore?
È l’ultima fase del gioco patologico, non ti interessa più vincere ma perdere perché vuoi dimostrarti che sei un errore, che sei sbagliato, è una forma di autolesionismo. Circa le facce dei giocatori non so, a me sembravano tutte molto tristi.
L’indifferenza delle persone verso i ludopatici è grande. Il severo giudizio su di loro, il trattarli come viziati spendaccioni e non come malati veri e propri, quanto pesa? Forse il fatto che non portino su di sé i segni fisici della malattia, a differenza degli alcolisti o dei tossicodipendenti, azzera l’empatia?
Nell’ultimo periodo di gioco chiedevo aiuto e le persone mi rispondevano che una dipendenza ce l’abbiamo tutti, cioè tendevano a sminuire la portata del problema proprio perché non portando addosso i segni della malattia non facevo compassione a nessuno. Si faceva fatica a comprendere che il gioco non fosse più una scelta ma un’orrenda dipendenza (fermo restando che personalmente andavo in sala con un tutore alla mano destra per il dolore dei crampi al tunnel carpale derivante dalla spinta convulsa sul pulsante della macchinetta).
La vincita dovrebbe donare la felicità e il giocatore si affida alla fortuna, allontanandosi sempre di più dalla realtà. Quando si arriva ai tuoi livelli l’aspetto patologico è impossibile da tralasciare? O è più forte la vergogna? Secondo te è su questo tema che bisognerà lavorare, a livello culturale e sanitario?
Quando me lo chiedono rispondo sempre di chiedere aiuto, a costo di essere invadenti, perché se ne può uscire, basta trovare il canale giusto. Sensi di colpa e vergogna andrebbero banditi, ovviamente comprendo bene la difficoltà di farlo ma quando si avverte di aver toccato un fondo (qualunque esso sia, le storie che ho ascoltato sono tutte molto dure), quando la vita diventa ingovernabile a causa del gioco, allungare una mano è l’unica cosa da fare: probabile che qualcuno la prenda. Nei confronti del gioco c’è un tabù grandissimo, bisognerebbe lavorare su quello.
Il fatto che tu sei una donna forte è indubbio, hai disciplinato la mente e lavorato su te stessa. La lotta è quotidiana all’inizio? Adesso con un po’ più di serenità e consapevolezza qualche lusso te lo concedi? Una bella cacio e pepe magari?
Mi concedo ben più di una cacio e pepe! Devo infatti stare attenta a che anche quella dal cibo non diventi una dipendenza.
Con questo romanzo autobiografico, frutto anche del corso di scrittura che hai fatto, hai dato ai lettori tanto su cui riflettere. Il prossimo romanzo sarà di finzione o la tua cifra è l’autobiografia?
La mia cifra è l’autobiografia, ne sono sicura perché ho frequentato diversi corsi di scrittura sul racconto, cosiddetti di fiction, ma solo all’interno di quello specifico corso ho potuto trovare una voce che sento mia e che è stata riconosciuta come tale.