
La bellezza di Aminata Fofana è energia pura, luce che dal sorriso d’avorio rimbalza su una pelle d’ebano. Modella, cantante, compagna di un italiano, Aminata ha deciso di dedicarsi alla scrittura per raccontare la sua infanzia in un microscopico villaggio di fango dell’Africa tribale.
Dove ti ha portato il cammino che è iniziato in quel piccolo villaggio della Guinea?
Prima ho abbandonato il mio villaggio, poi la città africana dove parte della mia famiglia si era trasferita: una città dove non riuscivo a vedere il cielo, dove ero costretta a mettere le scarpe, a mangiare con forchetta e coltello (una vera impresa!), dove la mia scimmietta è rimasta fulminata per aver infilato le dita nella presa della corrente. Ho abbandonato questa città dove stavo diventando sempre più triste e mi sono trasferita a Parigi da mia zia. Una città di tutti bianchi mi affascinava molto. È lì che qualche tempo dopo ho cominciato a fare la modella.
Sappiamo che ti stai dedicando anche alla carriera di cantante...
Sì, è uscito il mio primo disco, che qualcuno ha definito un crossover tra Sade e Youssou N’Dour ma che io non saprei definire, come mi succede con tutto ciò che mi emoziona.
Per il tuo romanzo d’esordio, La luna che mi seguiva, hai scelto di scrivere direttamente in italiano. Vuoi spiegarci il senso di questa scelta così difficile?
Ho scritto in italiano perché sogno in italiano. È stato un processo istintivo, e del resto nel processo creativo devi essere spontanea. Forse nella mia lingua il libro sarebbe stato diverso, alcune parole della mia lingua sono intraducibili e ci ho messo un bel po’ per non smarrire il senso di tutte le parole: solo in questo senso c’è stata una fatica di traduzione, per il resto mi è venuto tutto di getto. Ho scritto La luna che mi seguiva durante una grave malattia, e in quei momenti l’emozione era davvero tutto per me. Se non avessi scritto questo libro sarei morta, ero stata data per spacciata dai medici. Il mio presente era buio, il mio futuro non c’era: sono stata costretta a cercare nel mio passato.
Che ruolo ha la magia nel tuo romanzo?
Gli occidentali hanno un approccio alla magia molto diverso da noi africani. In questo libro la magia è bellezza, un percorso dello spirito che deve forgiarsi per trovare la sua dimensione, una magia usata per creare, non per distruggere. In questo senso il libro è come fosse una strada verso la saggezza, la conoscenza. Come voi anche io avevo perso la magia. Mi ero omologata ad un modello culturale occidentale e mi ero spenta. Poi, durante un drammatico pomeriggio di malattia in cui mi chiedevo perché proprio io dovevo soffrire così, immersa in una cupa disperazione, ho notato una piuma per terra nella stanza. L’ho raccolta, ed era esattamente uguale alle piume che usava mio nonno sciamano per purificare le persone. Sono andata in bagno e nello specchio ho visto i guerrieri del mio villaggio con i loro colori sul viso, e da lì sono partiti mille ricordi, e ho visto come in sogno la tenda della capanna dello sciamano aprirsi e una figura all’interno: è stato come se vedessi la realtà dietro ad un velo squarciato, e ho deciso di scrivere ciò che avevo visto.
Come reagirebbero i tuoi concittadini del villaggio da cui provieni se sapessero che hai scritto questo libro?
Sarebbero molto contenti. Si affollerebbero tutti intorno al libro e mi chiederebbero: hai raccontato anche di me? Ci sono io nel libro? Cosa hai detto di me?
E l’Africa ha bisogno anche di questo? Che si parli di lei?
L’Africa ha bisogno soprattutto di rispetto, e che le venga restituita la sua identità culturale, spirituale e religiosa.