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Intervista ad Andrea Donaera

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Andrea Donaera, il cui nome può essere anagrammato in “Andrea o Andrea”, ha esordito come romanziere nel 2019. Era già noto negli ambienti letterari per i suoi interventi sul quotidiano «Domani» e per la produzione poetica. Dopo soli due anni ha pubblicato un nuovo, affascinante romanzo. Gestisce inoltre un seguitissimo podcast, (N)trame, in cui dialoga con altri scrittori esordienti, andando a sviscerare le vicende editoriali ed esistenziali nascoste dietro ai loro libri.



Tu nasci come poeta, quindi vorrei sapere qualcosa di più sul percorso che ti ha portato alla prosa. Hai sentito l’esigenza di indagare un altro linguaggio? Quanta poesia è rimasta nei tuoi romanzi?
Per me non si tratta di percorsi separati – quantomeno da un punto di vista creativo. Certamente la poesia ha una platea, un mercato e una fruizione del tutto differente. Ma per scrivere poesia, prosa o teatro vuol dire semplicemente una cosa: scrivere. Sono ramificazioni di un’unica azione, che non riesco a sentire come scissa – non riesco a percepire la poesia come un altro linguaggio. E dunque credo ci sia parecchia poesia nei romanzi che provo a scrivere – ma anche il contrario.

Sia Io sono la bestia che Lei che non tocca mai terra sono ambientati in Salento, tua terra di origine. È per la necessità di scrivere parti anche nel dialetto che, come hai ricordato in altre interviste, è la lingua con cui pensi e sogni? Quali altri motivi ci sono, se ci sono?
Il Salento in cui ambiento le storie è un luogo molto mentale. Davvero distante dalla realtà che un visitatore di certi luoghi può incontrare. Non è però un atto programmatico o “di poetica”: ho bisogno di far agire dei personaggi in territori che sento miei, vividi (anche laddove psichici, onirici, inventati, pasticciati). Ho vissuto in Salento quasi tutta la mia esistenza, abitandone anfratti e angoli nei quali sono avvenute alcune tra le cose più importanti della mia vita: è lì che abita il mio inconscio, ed è lì che faccio succedere le cose nella mia testa – che poi ogni tanto diventano romanzi.

Sei nato nell’89, possiamo dire che fai parte della generazione di Zerocalcare. Ti senti un millennial? In che modo la tua ricerca letteraria è stata condizionata dal periodo storico che ti sei trovato a vivere?
Sì, certo, sono un millennial, e questa “condizione” ha lasciato e sta lasciando segni profondi nel mio modo di vedere il mondo – e dunque nel mio modo di parlare del mondo. Questo vale ed è valso per tutte le generazioni e tutte le epoche, naturalmente. Personalmente mi sento investito in modo violento dalla realtà in cui la mia generazione vive: questo si riversa tantissimo in quello che provo a scrivere.

I personaggi dei tuoi libri sono molto vividi; più che dal loro aspetto fisico o dalle loro azioni, sembrano prendere forma dalla loro stessa voce, dal modo in cui parlano. Non a caso le pagine dei tuoi romanzi sono fitte di dialoghi. Come costruisci i personaggi? Parti dalla loro caratterizzazione o nascono come voci?
Nascono dalle loro “voci di dentro”. La prima cosa, per me, è capire come e cosa pensa un personaggio. Di conseguenza come parla e cosa dice. Il pensiero e la voce sono azioni sufficienti a creare delle storie, a mio parere. Poi, va be’, a questi personaggi faccio fare pure altre cose, certo, ma si tratta di movimenti che hanno senso solo se collocati in uno schema umano che comprenda voce e mente. Le descrizioni fisiche sono secondarie, per quanto mi riguarda.

Ti sei occupato anche di serialità, cosa ti affascina di più del linguaggio delle serie tv? Hai mai pensato di scrivere qualcosa di seriale?
Mi affascina molto la capacità di intrattenere in un modo dilatato rispetto alle storie filmiche: la gestione di narrazioni con un ritmo differente, paradossalmente più vicino al romanzo. Mi piacerebbe moltissimo scrivere qualcosa di seriale, ma purtroppo attualmente non ne ho le competenze.

Hai più volte dichiarato la tua passione per David Lynch. Quali sono gli aspetti della sua opera che ti interessano di più?
Poter prendere visione dei movimenti psichici di certe creature umane è un privilegio che solo il suo cinema è in grado di offrire, secondo me. E i suoi film, dunque, sono un carburante prezioso per chi vuole provare a raccontare cosa succede nella testa della gente.

In Lei che non tocca mai terra c’è un’attenzione particolare al dolore e all’amore. Quali sono i sentimenti che ti interessa di più investigare?
Beh, se potessi indagherei tutti i sentimenti: credo sia la velleità (più o meno inconscia, più o meno dichiarata) di ogni persona che scrive. Certe cose come l’amore o il dolore però credo siano affascinanti, perché descrivendone anche un proprio spicchio personale si può far esplodere un mondo negli occhi di legge.

Andrea o Andrea, inserirti nei libri che scrivi è un vezzo, un gioco o sei proprio tu? Quanto ti racconti tra le righe dei tuoi romanzi?
Un gioco. Quello che facevamo da bambini: “Faccio che io ero...”, “Facciamo che tu eri...”. Io faccio che ero il protagonista delle cose che provo a scrivere.

Conduci un podcast interessantissimo in cui ti confronti con altri, bravissimi scrittori emergenti, qual è l’urgenza che ti ha portato a creare (N)trame?
Questo ha a che fare con la questione generazionale di cui parlavamo prima. Mi piace provare a mappare cosa succede nella letteratura a me circostante (e questo succede da prima del mio esordio narrativo). Negli ultimi anni ho riscontrato una sorta di sensibilità comune, un approccio alla scrittura con molte adiacenze tra autori e autori: c’è la sensazione, insomma, che qualcosa stia cambiando. Nella società e allora anche nella letteratura. Dunque avevo voglia di chiacchierare con gli autori e le autrici di libri che mi è piaciuto leggere e che potessero essere inclusi in un discorso come questo.

Visto che la tua prima passione è stata la musica, ci consigli un album da ascoltare come sottofondo leggendo i tuoi libri? (per chi riesce a fare più cose contemporaneamente)…
The Triumph Of Steel dei Manowar.

I LIBRI DI ANDREA DONAERA