
Avete presente quando leggete un libro bello, ma talmente bello che vi prende la smania di conoscere l’autore, di chiamarlo al telefono per dirgli quanto il suo libro vi sia piaciuto? Ecco, parafrasando Salinger, l’incontro con le pagine di questo coltissimo medievalista innamorato del suo Friuli e della cultura meticcia che lo abita da secoli, ha avuto un impatto dirompente su di me, come non mi capitava da anni. La fortuna di collaborare con Mangialibri ha fatto il resto, facendo avverare il sogno di parlargli, anzi di bersagliarlo di domande.
Sei un medievalista che racconta la poetica delle osterie di montagna e della vita di confine. Quali ritieni che siano i tesori di questo mondo della micro-ospitalità che vanno conservati, se ancora ce ne sono?
La rusticità. Quella ruvidezza che da queste parti ha un sapore antico. Penso sia un dono sempre più raro. Alle volte può spiazzare ed essere confusa con malagrazia. Invece è l’esplicitazione di un pudore profondo, di una ritrosia che si radica bene nei profili scagliosi delle nostre montagne. L’oste taciturno e “orculento” (neologismo: dalle fattezze da orco!) custodisce gelosamente la sua tana. Vi ammette soltanto chi considera degno di tanta fiducia. Ho visto turisti “fighettini” cacciati con un ruggito perché pretendevano un “beverage” (sic!) alla moda, un’etichetta famosa. Mi piacciono osterie del genere. Non sono finte. Non ti prendono in giro, non ti ingannano mai. Sanno di legno che si consuma piano al fuoco. Basta un’occhiata per capirsi. E subito qualcuno ti riempie il bicchiere, chiedendo di essere ripagato con la storia che saprai raccontare.
Oltre che un cronista di confine, sei un insegnante, uno studioso appassionato di Dante, ma tra tutte le tue attività quella più affascinante è la collaborazione con la Biblioteca Guarneriana, dalla quale è scaturito il bellissimo Guarneriana segreta: ci racconti in poche parole la magia di questo luogo?
Appena entri nell’antica libreria lignea del Settecento vieni preso da un profumo inebriante: è una sovrapposizione di essenze che gli scaffali in noce restituiscono mescolandole con l’odore della carta antica intrisa di inchiostri distillati in casa, con ricette che sanno di bosco, di muschio e di licheni. E poi ci sono cuoiami delle copertine, le pergamene di agnello o di vitello, la cera d’api che per secoli ha lucidato le superfici. Dodicimila libri antichi occhieggiano dall’alto, mentre nella penombra avverti scricchiolii e impercettibili fruscii. È la Biblioteca che respira, mentre ti accoglie, abbracciandoti in uno spazio tempo in cui ti smarrisci facilmente. Le ore qui fluiscono con un ritmo diverso, dilatato. E poi ci sono manoscritti che sanno raccontare storie, se rimane in silenzio ad ascoltarli. Alcuni hanno più di mille anni di vita, hanno viaggiato il mondo sui sentieri dei pellegrini, sui basti di mulo degli erranti o in bisacce arrangiate alla meno peggio da chi fuggiva via da guerre e da eccidi. Sono lo specchio di un grande amore. La prima biblioteca pubblica del Friuli, nata nel 1466 per volere di un intellettuale convinto che bellezza e cultura devono appartenere a tutti per non perdere il profondo significato di cui sono portatrici.
Gli autori che hanno il dono di saper raccontare la magia di piccole comunità, sia che si tratti di Macondo, di uno shtetl dell’Est Europa, di piccole città del Midwest, di comunità rurali del Sud Italia o microscopiche realtà di confine friulane, sembrano avere tutti qualcosa in comune nel loro talento affabulatorio. Ritieni che si possa parlare di “genere letterario”, che vi sia un legame tra questo tipo di autori e, se si, a quali di essi ti senti più vicino?
Penso che nei luoghi di frontiera le storie restino impigliate ai profili frastagliati dei paesaggi, alle solitudini delle periferie. Quelle cantate da Dino Buzzati, per esempio. L’anima di questi luoghi ha un respiro del tutto particolare. Bisogna rallentare il passo per avvertirla. Quindi sì, concordo pienamente con l’assunto della domanda. Un borgo dell’altopiano carsico cantato da Fulvio Tomizza è vicinissimo alla Bosnia profonda di Ivo Andrić. E i mandracchi istriani hanno il sapore dei vicoli di pietra che scendono fino alle acque del Bosforo. Mi riconosco in quanti scrivono perché non hanno radici ma memorie. Le radici sono esclusive, stanziali, tristi. La memoria invece è sempre dinamica. La puoi donare. La puoi rubare. Oltre agli autori già citati potrei cercare affinità nelle pagine di Paolo Rumiz, in quelle più tormentate ni Niccolò Tommaseo, l’ultimo degli illirici, come amava definirsi lui stesso. In Miroslav Krleža, fieramente jusgoslavo.
Hai mai l’impressione che il voler preservare e raccontare le tradizioni di un territorio possa prestare il fianco all’idolatria dei localismi che ha preso piede in Italia? Qual è il modo per rendere “universale” il particolare, il piccolo?
Il localismo ha sempre il fiato corto. Vive di orizzonti ristretti, è troppo concentrato su se stesso, per questo è quasi sempre arroccato su posizioni egoistiche. Si difende, o crede di poterlo fare, erigendo muri, alzando barriere, sventagliando proclami che parlano di Heimat, una parola dietro la quale si nasconde un concetto estremamente pericoloso. Amare la propria terra invece significa saperla riconoscere plurale, meticcia, intersecata. Dietro ogni traccia lasciata dai nostri antenati si nasconde un intreccio, un nodo o meglio ancora una matassa i cui fili provengono da molto lontano. Prendi i friulani, ad esempio: la loro è una lingua ladina ricchissima di prestiti sloveni e tedeschi. La toponomastica dei nostri paesi riecheggia di assonanze celtiche, gotiche, longobarde, bizantine e slave. Anche la preparazione dei cibi tradizionali ha un sapore che scivola lentamente verso tre mari: l’Adriatico, il Baltico e il Mar Nero. Io lo trovo meraviglioso.
Il Friuli che racconti ne L’Osteria dei passi perduti e soprattutto ne La veglia di Ljuba è molto lontano da quello che ci riportano le cronache politiche. Quanto è rimasto in realtà della terra mitologica della tua infanzia e fin dove bisogna spingersi per trovarne traccia?
È rimasto molto. Oltre le grandi periferie che si snodano in chilometri di capannoni e centri commerciali, deviando verso i bordi erbosi dei campi o risalendo i torrenti di montagna, le vallate del Natisone, bordeggiando i casoni di giunchi della laguna scopri che le voci del Mito sono ancora forti e presenti. Sono tanti i giovani che stanno riscoprendo le antiche ballate folkloriche, magari arrangiandole secondo un gusto moderno. Ed è bello che sia così. Musicisti di grande talento tengono scuole nelle borgate più sperdute della Carnia, dove insegnano quanto siano solenni certi canti della tradizione, e antichi, tanto da affondare nelle lontananze del Patriarcato di Aquileia. Accendi un “fogolar” in una antica osteria, una di quelle vere, di cui si diceva prima, versa vino generoso nei calici, e subito qualcuno comincerà ancora a intonare canti struggenti o possenti della tradizione. Certi rituali, fortemente sentiti, sono ancora celebrati in particolari periodi dell’anno, e non per i turisti, che vengono ammessi solo se esplicitamente invitati: processioni carnascialesche, roghi solstiziali, danze di passo antico attorno a tronchi altissimi tagliati nella foresta ed innalzati presso le chiese, per propiziare la Primavera e la rinascita della Terra. Le fessure che conducono al meraviglioso ci sono ancora. Basta saperle trovare.
La veglia di Ljuba è un libro molto intimo, una sorta di medaglione che racchiude i ricordi a te più cari. Quanto è stato difficile scrivere partendo dai tuoi affetti e quanto dei tuoi genitori sei riuscito realmente a distillare tra le pagine? Esiste un momento in cui la creatività prende il sopravvento sulla biografia?
La veglia di Ljuba. Un testo che mi ha comportato una fatica estrema, un coinvolgimento che non avevo mai provato prima. Per questo ho dovuto iniziare e chiudere in tempi brevissimi. Non riuscivo più a tenermi dentro quello che poi sarebbe divenuto un flusso di coscienza che in poco più di due mesi si è strutturato sotto forma di racconto. Tutte le immagini, le memorie, i sapori e i colori le nostalgie e i sogni, le crudeltà e la bellezza si sono fatti parole. L’operazione non è stata artificiosa. Non ho potuto né voluto conferire una struttura, un’architettura d’effetto. Ho solo cercato di ritrovare le vibrazioni, gli stupori e le immagini che sono cresciute negli anni dentro di me. Erano rimaste impigliate sulle mura di pietra di Sveto, il paesino della Slovenia in cui tutto ha avuto inizio. Come la bruma in una mattinata d’autunno. Le avevo visitate assieme a mio padre fin da bambino, quelle storie. Bastava soltanto un profumo tra i vigneti, o uno schiaffo di bora per ridare fiato e sangue. La creatività poi ha suggerito il ritmo. Il colore e il profumo. Deve esserci un momento in cui l’immagine si fa rapsodia. Altrimenti non è narrativa, ma storia. Eppure sento fortissima la consapevolezza di non averne mai tradito il messaggio profondo. Quello è uscito fuori subito. E tutto intorno si è intrecciato il romanzo, proprio come fa una vite di Terrano che tra i sassi del Carso si appiglia dove può e dove vuole e restituisce il succo, acidulo ma profumato, della terra in cui è nata.<7p>
Di recente ho chiesto ad alcuni autori balcanici se secondo loro esista un legame tra i popoli dell’Adriatico che va oltre le guerre, le divisioni entiche e religiose. Qual è la tua opinione in proposito?
Non solo esiste, ma è antico e va coltivato. Il sostrato che li lega è pre-indoeuropeo. Nei secoli le migrazioni, gli insediamenti, i prestiti linguistici, non hanno fatto altro che amplificare questa Koinè, creando intersezioni plurime, meticce, risonanti. Predrag Matvejević lo ha dimostrato meravigliosamente nei suoi scritti, nei “breviari” di terra e di mare in cui ha raccontato come pochi saprebbero fare tutta questa meravigliosa complessità che oggi alcuni signori che strillano di muri e barriere vorrebbero cancellare. Ricordo la mia sorpresa, una calda estate di molti anni fa, quando a Korčula-Curzola, davanti a una cameriera divertita, mi sforzavo di ricordarmi come si dice forchetta in Croato (vilica)…e feci tutta una lunga perifrasi di parole per farle arrivare il concetto. E lei, sorridendo, esplose con un: “Oh, un piron?”. Piron è parola istro veneta. Esiste anche nella lingua friulana. Piron! Da Pola a Dubrovnik ci si capisce. I pescatori cantano le stesse canzoni, le leggende corrono lungo gli stessi scogli. E poi, cortocircuito, a Curzola è nato Marco Polo. E dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso lavorò una scuola estiva di filosofia in cui i più grandi intellettuali europei si trovavano per discutere dell’Uomo e delle sue utopie.
Pensi che riusciresti a scrivere un romanzo ambientato al di fuori della tua regione o ritieni piuttosto che il talento di uno scrittore stia nel raccontare i luoghi che meglio conosce, rendendoli nuovi e sorprendenti anche agli occhi dei loro abitanti?
Credo che sarebbe una gran bella sfida. Anche perché io sono intersezione di molti mondi diversi. Mio nonno paterno era siciliano. Di Furnari, un borgo di mezza montagna che guarda il mare di Messina. Mia nonna materna era Bavarese, di Donauwörth, vicino a Ratisbona. Mia madre è friulana e mio padre è nato a Sveto, in Slovenia. Basterebbe attingere a tutte queste memorie per ordire una trama narrativa. Il filo di Arianna nella gola del labirinto. Bello perdercisi per potersi ritrovare, simile e diverso, complicato e asimmetrico come credo di essere, come spero siano le mie figlie. Una di loro si sta laureando alla scuola traduttori e interpreti di Trieste, che un tempo fu la sede di quel Narodni Dom che i Fascisti bruciarono, nel 1920, perché simbolo evidente dell’internazionalità e del meticciato di quel porto che Vienna considerava la sua bocca e i suoi occhi sull’Adriatico. Una bella rivincita vero? E poi io sento che la mia casa è ovunque: nei boschi della Polonia ho trovato schegge di me che non sospettavo nemmeno esistessero. In Siberia, sulle sponde del Bajkal, ho assaporato la nostalgia per una casa lontana nove fusi orari, e quando sono ritornato mi sono ritrovato curiosamente affetto dalla stessa malattia per la luce soffusa di quelle steppe infinite. La letteratura è la voce del mondo. Dobbiamo abitarla con anima cosmopolita. Altrimenti correremo il rischio di essere sempre esuli, raminghi cacciati alla periferia di ciò che non siamo e che invece avremmo potuto essere.