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Intervista ad Anna Bardazzi

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Nata a Prato e da poco trasferitasi a Milano, dopo aver trascorso un lungo periodo tra Parigi e Panama, Anna Bardazzi si definisce una “quasi bielorussa”. Si presta volentieri, con l’aiuto dell’ufficio stampa della casa editrice Salani che ringraziamo per la collaborazione, ad una intervista per Mangialibri, durante la quale si racconta a cuore aperto, parlando di amicizia, affetti, donne, coraggio e felicità.




Nel 1995 la tua famiglia ha ospitato per la prima volta un bambino nell’ambito del Progetto Chernobyl. Quella raccontata nel tuo romanzo La felicità non va interrotta è quindi una storia personale o si serve di uno spunto personale per prendere poi altre direzioni?
Il Progetto Chernobyl è il punto di partenza per raccontare la storia di Anna e Lena, ma il libro non racconta la mia esperienza diretta. Io ero una ragazzina nel 1995 e, a differenza della mia protagonista italiana, ho ospitato e conosciuto moltissimi bambini negli anni. È grazie a tanti anni di Progetto che ho potuto conoscere così bene la Bielorussia e i bielorussi, un popolo poco conosciuto che merita invece molta più attenzione.

Cosa guadagna, in termini ovviamente non economici, chi accoglie un bambino del Progetto?
Accogliere un bambino che arriva da una realtà totalmente diversa dalla nostra inizialmente stravolge convinzioni e abitudini. Non è facile ritrovarsi a gestire bambini molto piccoli che non parlano una parola di italiano, né di altre lingue, e cercare comunque di capirli, di essere per loro una figura di sostegno e cura. Proprio questo scalino, quello linguistico e culturale, arricchisce moltissimo perché fa capire che l’amore non ha bisogno di molte parole o di vite in comune. Credo che sia così ogni volta che ci si apre a una nuova cultura.

Da dove nasce la tua esigenza di raccontare il periodo che segue l’esperienza di ospitalità piuttosto che l’esperienza stessa?
Volevo raccontare una storia sulla forza delle donne, un argomento che mi coinvolge e mi appassiona da tanti anni. Ho vissuto in diversi paesi e viaggiato moltissimo e ho sempre osservato con interesse la vita delle donne, accorgendomi di quanto siano comuni certe difficoltà e pure certe felicità. Sono partita dalla Bielorussia perché le bielorusse sono quelle che conosco meglio; per questo, appunto, il Progetto Chernobyl è solo il punto di partenza per inventare un dopo che parlasse di queste donne.

Nel tuo romanzo l’attenzione è particolarmente focalizzata sui concetti di accoglienza e di amicizia. Cosa sono per te questi due sentimenti e, in particolare, pensi che l’amicizia possa resistere alle distanze e ai confini, come nel caso di Anna e Lena, le due protagoniste del tuo romanzo?
Come dicevo, ho viaggiato tanto e vissuto sempre lontano da casa, dai 23 anni in poi. Per me è naturale avere amiche sparse un po’ ovunque e vedo che invece molte persone ritengono fondamentale avere un quotidiano in comune, vedersi, conoscere ogni dettaglio del proprio vissuto, per potersi considerare amiche. Per me non è così, ma credo che sia qualcosa che si capisce quando lo si vive. Una sorta di automatismo, quando si impara a stare lontano dalle persone con cui siamo cresciuti si capisce che l’affetto va ben al di là dei giorni passati assieme.

La Bielorussia, così presente nel romanzo, è una terra complicata ma, a tuo dire, bellissima. Cosa pensi di aver dato tu a questa terra e che cosa invece ha dato a te?
La Bielorussia mi ha cresciuta, ha fatto di me la persona che sono oggi, mi ha regalato la curiosità per il mondo, che già mi avevano trasmesso i miei genitori, ma soprattutto mi ha insegnato l’amore per le piccole cose e l’importanza delle relazioni, dell’essere sempre accoglienti e apprezzare il prossimo. In tutti i paesi in cui ho vissuto c’è molta diffidenza verso il prossimo, si è sempre di fretta, in Bielorussia non importa chi tu sia, sarai accolto come uno di famiglia. È un concetto che sento molto mio e dopo tutti questi anni non so più se sia grazie alla Bielorussia che l’ho sviluppato, o se l’avessi già e per questo mi sia trovata tanto bene lì.

Ci sono quindi luoghi che possono entrarci nella pelle anche se non sono i nostri luoghi d’origine? Se sì, perché? Si tratta di magia, strane congiunzioni astrali o di cos’altro?
Io credo che siano i posti in cui si vivono momenti fondamentali della propria vita. In Bielorussia ho vissuto per la prima volta da sola, appena laureata, ed è stato un periodo bellissimo che ha segnato per me un taglio tra il prima, la me bambina, e il dopo, la me donna. Mi è successo anche con altri luoghi che magari ho sentito miei anche solo per un giorno, eppure mi sono rimasti dentro. Credo che siano i luoghi in cui siamo stati felici a entrarci dentro per sempre.

Ti ho sentita ripetere spesso che la Bielorussia è donna. In che senso? E, a proposito, qual è il tuo punto di vista in merito agli ultimi episodi occorsi in Bielorussia, ad opera di tre donne che hanno preso in mano le redini dell’opposizione?
Ho iniziato a frequentare la Bielorussia nei primissimi anni Duemila, e ho incontrato tantissime donne. Le accompagnatrici dei bambini, le interpreti, le responsabili delle associazioni, le insegnanti, le direttrici, le mamme, le nonne, le vicine e infine Liuda, la persona che ha cambiato il mio rapporto col paese, perché è stato grazie a lei se mi sono trasferita e ho imparato a conoscerla così bene. Ho incontrato anche tanti uomini incredibili, ma quando chiudo gli occhi rivedo tutte quelle donne e la loro forza, la capacità di mandare avanti la società sempre col sorriso, proprio come abbiamo visto fare a Tikhanovskaya, Tsepkalo e Kolesnikova. Infatti, vorrei imparare a chiamare il paese Belarus, e non Bielorussia (perché questo nome è la traduzione del termine russo, è quindi una questione politica) ma non ci riesco proprio perché Bielorussia mi ricorda una donna. Non mi stupisce, comunque, che delle donne abbiano guidato le proteste, perché sono davvero il motore della loro società.

Sul tuo profilo Instagram si legge: “Pratese in giro per il mondo. Due figlie parigine, un gatto siberiano”. Stai educando le tue figlie ad essere cittadine del mondo? Se sì, quali ritieni possano esserne i vantaggi?
Le mie figlie sono nate entrambe a Parigi e hanno vissuto gran parte della loro vita lì, tranne un paio di anni a Panama e adesso, negli ultimi mesi, in Italia. Parlano tre lingue, hanno visitato decine di paesi e hanno amici di ogni nazionalità. Non so se siano cittadine del mondo, ma sicuramente hanno una visione della vita e un’apertura invidiabile verso ciò che è sconosciuto. Non hanno paura di scoprire, di assaggiare, di imparare una nuova lingua, ma non credo che si debba per forza aver avuto la loro infanzia per essere persone aperte al mondo. Io ho vissuto 23 anni a Prato, eppure sono cresciuta proprio così. A volte il mondo ce l’abbiamo sotto casa, solo che non lo vediamo.

Perché, per concludere, la felicità non va interrotta nel momento in cui la si sta assaporando?
Perché la rincorriamo continuamente. Siamo sempre insoddisfatti, puntiamo sempre più in alto, lasciamo correre i momenti felici o addirittura li interrompiamo perché pensiamo che non abbiano valore, che non meritino attenzioni. Invece sono proprio quelli che rendono la vita meritevole di essere vissuta, dovremmo solo farci caso un po’ più spesso.

I LIBRI DI ANNA BARDAZZI