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Intervista ad Antonio Lanzetta

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Disponibile, schietto e generoso nei confronti dei suoi lettori, Antonio Lanzetta – scrittore salernitano con un trascorso da musicista – si racconta senza indugio e parla volentieri di eroi normali e di avversità della vita, del mestiere dello scrittore e delle letture che, a sua volta, lo appassionano come lettore. Si presta volentieri a soddisfare la nostra curiosità e ci anticipa qualcosa anche riguardo i suoi progetti futuri. Ecco cosa ci ha raccontato.



Nei tuoi romanzi c’è un elemento che ogni volta è presente, indipendentemente dall’intreccio: racconti l’angoscia dell’animo umano, ma lasci sempre lo spazio a una sorta di riscatto per il protagonista o i protagonisti. È così?
Penso che le storie debbano prima di tutto raccontare le persone. Focalizzarsi sulla costruzione dei personaggi, piuttosto che sulla trama, a mio avviso aumenta nel lettore l’interesse, l’empatia e la capacità di condividere i conflitti, interni ed esterni, che animano i personaggi. Da lettore, poi, credo che oggi si pubblichino (soprattutto nella narrativa di genere) tanti romanzi di “pura trama”, con ritmo serrato, colpi di scena continui al limite dell’inverosimile, manco fossero una sceneggiatura di una serie TV, mainstream piuttosto che letteratura. Intrattengono e divertono sicuramente, ma a me capita, dopo aver terminato la lettura, di non ricordare nemmeno il nome dei personaggi, figuriamoci il resto!

Qual è stata la molla che ti ha spinto a passare dal fantasy e dallo YA al thriller? E qual è il percorso che hai compiuto e che ti ha spinto a pensare, a un certo punto, di essere pronto per la svolta?
Leggo libri di ogni genere, o quasi, da sempre. I romanzi per ragazzi che scrivevo all’inizio mi sono serviti come palestra in quella infinita gavetta che contraddistingue il mio lavoro di autore. Alcune delle tematiche che mi porto dietro e che ho assimilato dai libri letti sono molto vicine al fantasy, al mistero e a tutte quelle cose che spesso i salotti letterari relegano ad esclusivo appannaggio della narrativa young adult. A un certo punto ho capito che volevo provare a scrivere storie alternative, che potessero essere lette da tutti.

In alcuni tuoi romanzi- penso in particolare a Le colpe della notte si trovano, accanto alle caratteristiche più classiche del thriller, pagine intrise di lirismo e davvero poetiche. Sono quelle nelle quali tutti i cinque sensi vengono chiamati in causa per mostrare al lettore le scene che vuoi raccontare. Quanto questo aspetto è studiato a tavolino e quanto invece è frutto dell’ispirazione del momento?
Grazie! Non sono uno scrittore diligente. Nel mio studio non ci sono pareti tappezzate di post-it colorati. Non faccio scalette dettagliate delle trame e il massimo della mia pianificazione si limita al pensare a cosa potrebbero volere i personaggi, per sommi capi, e a come dovrebbero comportarsi per risolvere i loro problemi. Quindi, in conclusione, quando più o meno ho un’idea della storia, comincio a scriverla, lavorando molto di riscrittura, piuttosto che impiegare il mio tempo nella pianificazione. Questo è certamente un lavoro meno scientifico e più lento, ma mi permette di non reprimere la creatività.

Perché si scrive, anzi perché Antonio Lanzetta scrive? Per sé o per gli altri?
Kafka disse di non voler essere altro nella vita che letteratura. Aveva però un lavoro presso un’assicurazione a Praga e scriveva nel tempo libero. È una condizione che accomuna e ha accomunato parecchi autori. Mi chiedo cosa possa significare quella sua affermazione; nel provare a spiegarla mi sono reso conto che riguarda direttamente anche la mia vita, che senza libri o storie da raccontare agli altri non avrebbe alcun senso.

Anche nel tuo ultimo romanzo il protagonista non è un eroe, ma una persona comune. Non è rischioso per uno scrittore affidare il proprio tempo a chi non si distingue per qualche abilità o caratteristica tale da farne un soggetto unico?
Credo che i veri eroi siano le persone comuni, quelli della porta accanto, noi. Ci sono così tanti personaggi infallibili nel mondo dei libri, soprattutto nella letteratura crime, che il solo pensiero mi fa venire da sbadigliare. Preferisco le storie invece che parlano della gente semplice, senza talento, di come si reagisce alle avversità, come si cade e poi ci si rialza, cambiando per sempre.

Da dove è nata, ne Il tempo dell’odio, l’idea di raccontare Michele e il suo desiderio di vendetta e di collocarlo proprio nel periodo storico che hai scelto?
Volevo raccontare una storia della mia terra partendo da fatti storici realmente accaduti nella provincia occupata dai nazisti, nei mesi che anticiparono l’operazione Avalanche con cui gli Alleati sbarcarono a Salerno. Volevo scrivere un romanzo di formazione con sfumature dark e l’impronta di un gotico rurale, noir storico, e che il testo proiettasse luci e ombre delle atmosfere tipiche del southern gothic americano.

Come ci si sente a essere definiti lo Stephen King italiano?
È un paragone insostenibile, che mi fa sempre sorridere. Stephen King è unico. Leggere i suoi romanzi mi ha aiutato a crescere, a discernere il bene dal male. È un autore nei confronti del quale ho un debito incredibile.

Cosa ami leggere? E cosa, o quale autore, invece detesti?
Amo leggere i romanzi di formazione, le storie che raccontano la vita delle persone comuni senza scadere nel cliché. Amo la letteratura americana in ogni sua espressione: credo che il modo di scrivere degli americani sia superiore e più coraggioso rispetto a quello di tanti europei. A tal riguardo, detesto la narrativa nazionale e il ricorso a figure retoriche come le classiche storie di famiglia, con cinquantenni incompiuti intrappolati in meccanismi da narcisisti patologici e storie di corna.

Sei già al lavoro per il prossimo progetto? Se sì, dove ti porterà?
Sto lavorando a un romanzo che dovrebbe uscire la prossima estate. Un horror/thriller con sfumature psicologiche che non vedo l’ora di farvi leggere.

I LIBRI DI ANTONIO LANZETTA