
Una delle voci più nuove e vitali della letteratura brasiliana - Premio Saramago Giovani - Adriana Lisboa stupisce e affascina per la sua prosa ricca e visionaria e per il suo amore per la musica che traspare dietro ogni pagina, storia, parola, sorriso. Noi di Mangialibri non potevamo certo fare eccezione: infatti l'abbiamo incontrata e ci siamo lasciati incantare...
Nel tuo scrivere, la natura è una presenza concreta, specchio per i protagonisti, luogo fuggito o agognato. Quanto ti condiziona l’ambiente intorno a te quando racconti una storia?
Al contrario dell’attuale narrativa brasiliana che è molto urbana, io riprendo molto la mia esperienza personale, dato che ho trascorso la mia infanzia nell’interno dello stato di Rio de Janeiro, in campagna. Per questo volevo ritrarre un Brasile diverso, dato che fa parte delle mie radici.
Quanto la tua formazione musicale influisce sulla tua scrittura?
Influisce molto. Ho studiato musica per molti anni, sono stata insegnante di musica, ho suonato il flauto per quasi dieci anni, ma mi sono allontanata dalla musica perché ritengo che sia la musica che la letteratura siano due attività che esigono la quasi totalità del proprio tempo. Ho provato a portarle avanti insieme, ma poi hanno cominciato a confondersi. Però la musica è rimasta: scrivo sempre pensando alla “qualità sonora” del testo, come se ogni parola avesse un suono suo, come se questo facesse la differenza nel testo.
Quali sono i tuoi scrittori e i generi letterari preferiti?
La mia formazione letteraria è stata piuttosto disorganizzata. In Brasile si leggono ancora i classici della letteratura latinoamericana, autori della letteratura fantastica, sebbene quest’ultima non sia caratteristica del Brasile. Per quanto riguarda la letteratura brasiliana, per me è stata una grande scoperta lo scrittore Machado de Assis, una felice scoperta che dura ancora, Guimarães Rosa, Manuel Bandeira, un poeta che ha scritto una poesia che ha ispirato un mio libro (Um beijo de colombina, ancora inedito in Italia, ndt), e per quanto riguarda la letteratura portoghese del Portogallo, José Saramago è stato importantissimo per me, soprattutto le sue opere degli anni Ottanta, non tanto per le opere successive che mi interessano meno. Poi ci sono due autori italiani che ho letto e che sono stati molto importanti per la mia formazione letteraria: Italo Calvino che è molto letto e studiato in Brasile, e Primo Levi. Tra le scrittrici Marguerite Duras e la Virginia Woolf di Orlando...
Sei anche una traduttrice in portoghese dal francese e dall’inglese e hai tradotto autori come la Yourcenar, Mary Shelley, Robert Louis Stevenson... cosa ti risulta più difficile: scrivere o tradurre?
Sono due cose molto diverse. C’è una poetessa, Celina Portocarrero, una mia cara amica, anch’essa traduttrice, che quando traduce ha grosse difficoltà a scrivere, perché completamente assorbita dalla traduzione. Io in questo senso sono molto schizofrenica: mi impongo di tradurre in determinati momenti e in altri di scrivere. Certo, è una convivenza molto difficile perché c’è la tendenza a dire che chi è un buono scrittore difficilmente è un buon traduttore perché nel tradurre si corre sempre il rischio di “metterci del proprio”; ma io prendo il momento della traduzione come scuola, un’occasione per fare anche una lettura diversa del testo, più attenta alla singola parola, lettura che altrimenti non farei semplicemente leggendo il libro. È una sfida per me quando mi trovo a dover tradurre scrittori molto diversi dal mio modo di scrivere, e sto sempre molto attenta a quello che traduco perché avrei naturalmente la tendenza ad aggiungere cose che nel testo originale non ci sono, e quindi durante la revisione faccio sempre molti tagli. In particolare, ho passato questo ultimo anno a tradurre esclusivamente due libri di Mc Carthy, La strada e Non è un paese per vecchi, ed è stato un vero apprendistato per me dovermi misurare con una scrittura così lontana dal mio stile, dal mio modo di scrivere, perché McCarthy è un autore estremamente conciso.
Da cosa nasce l’idea del titolo del tuo romanzo Sinfonia in bianco?
Viene da un quadro di James Abbott Whistler, intitolato appunto “Sinfonia in bianco”, che è un quadro a cui un personaggio, Tomás, si ispira quando vede Maria Inês per la prima volta. Rappresenta una donna vestita di bianco, con un fiore bianco in mano, la pelle bianca, su un tappeto di orso bianco, e in cui l’unica cosa che risalta sono i capelli scuri e lunghi. Al di là del riferimento al ritratto, questi titolo è molto importante per me, perché “sinfonia” musicalmente significa “suonare insieme”, e quando penso a una sinfonia in bianco, è una specie di “suonare insieme” in bianco, una specie di sinfonia fatta di silenzi. E questo è esattamente quello che accade a questi personaggi: niente viene detto, niente può essere detto, le cose accadono ma non vengono dette. Non dimentichiamo che nel periodo storico in cui il romanzo è ambientato (anni Sessanta e Settanta), in Brasile c’era la dittatura militare: tutti sapevano cosa succedeva, quali cose terribili succedevano, ma non si poteva dire. E anche questa è una specie di Sinfonia in bianco.
I libri di Adriana Lisboa