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Intervista a Aleksej Nikitin

Aleksej Nikitin (Kiev, 1967) ha una laurea in fisica, ha collaborato alla realizzazione del sarcofago atto a mettere in sicurezza la centrale di Černobyl’ ed è autore di quattro romanzi. Attraverso le sue opere, con attenzione e una buona dose di ironia, racconta di un’Ucraina poco conosciuta e di un passato che si riflette nei tragici sviluppi presenti del Paese. Lo raggiungiamo telefonicamente mentre è in Italia in occasione del festival Pordenonelegge 2019. Dopo essersi scusato per il ritardo dovuto al suo volo, il tempo di un veloce pranzo ed è pronto a concedersi con cordialità e grandissima disponibilità alle nostre domande.




Hai una laurea in fisica, sei giornalista e scrittore. Come sei arrivato alla scrittura?
Tutto è cominciato già quando lavoravo come fisico, cercavo sempre di scrivere qualcosa, la letteratura mi affascinava. Tuttavia non mi ci potevo dedicare perché erano gli anni ‘90, anni economicamente difficili, per cui dovevo lavorare per guadagnare, e comunque il mio lavoro era quello di fisico. Poi, gradualmente, essendo il mio principale interesse quello della letteratura, cercavo di portare via del tempo al mio lavoro, a seconda di come mi era possibile, per dedicarmi alla scrittura e pian piano sono diventato uno scrittore. Negli ultimi tre anni non ho fatto altro che dedicarmi alla scrittura, mi sono dedicato a un libro, adesso ho finito un altro lavoro e spero di guadagnarci dei soldi, altrimenti sarebbe dura, ma penso di dedicarmi, da un punto di vista economico, alla sceneggiatura.

Sei ucraino e scrittore in lingua russa. Come convivono al giorno d’oggi queste due “anime”, soprattutto in ambito letterario? Ci sono evidenti differenze con il passato?
Adesso in Ucraina si parla semplicemente di una letteratura che si scrive in due diverse lingue, quella ucraina e quella russa. Non dimentichiamo che cento anni fa, che in termini storici sono ben poca cosa, in Ucraina avevamo ben quattro diverse culture: quella ucraina, quella russa, quella polacca e quella ebraica, che significa anche produzione letteraria in queste quattro lingue; nell’arco di cento anni quella polacca e quella ebraica sono scomparse completamente, la prima annientata dagli zar e la seconda dai bolscevichi, e questo, tra parentesi, accadde non soltanto in Ucraina, ma anche in altre aree. Per concludere diciamo che prima l’Ucraina era un paese di quattro lingue, adesso è un paese di due, si parla e si scrive in due lingue; è una situazione che non piace a nessuno perché abbiamo perso due delle nostre tradizioni letterarie. Io ritengo che le diversità culturali facciano bene a tutti, perché allargano la mentalità, aprono al mondo, permettono sviluppi diversi e permettono di osservare i problemi da diversi punti di vista. Ora quindi si può dire che il mondo letterario ucraino è composto da due tradizioni letterarie, due culture e due lingue e questo deve essere un fattore da utilizzare a vantaggio di entrambe.

C’è qualche figura reale cui ti sei ispirato per i personaggi che popolano il tuo parco della Vittoria?
Quasi tutti. Alcuni addirittura mantengono nel libro il loro nome.

Scrivi che Kiev, la tua città, è “praticamente assente dalla letteratura mondiale”. Perché secondo te?
Ci sono molte cause che hanno portato a questa situazione. Io direi che la causa fondamentale è che Kiev è sempre rimasta nell’arco di tutto il XX secolo in realtà una città molto provinciale; tutte le principali attività si svolgevano soprattutto a Mosca che era la capitale dell’Impero e anche se esistono libri come La guardia bianca di Bulgakov o alcuni libri di Kuznetsov che riguardano Kiev, ci sono stati libri che prima furono pubblicati a Mosca o a Parigi come quello di Bulgakov per via dell’immigrazione. Quello che è importante è sempre il rapporto con il potere, le libertà erano sempre meno garantite, la pressione da parte del potere sugli autori cresceva e questo rappresenta un fattore che porta a bloccare lo sviluppo letterario. Affinché crescano e compaiano i grandi libri ci vogliono anche grandi argomenti come sono stati la Rivoluzione ma anche un determinato rapporto con il potere. Inoltre se vogliamo appunto parlare di repressione gli autori venivano anche uccisi. È molto interessante ad esempio un libro scritto da uno scrittore ucraino, Valerian Pidmohylnyi, assassinato negli anni Venti. Tra i gruppi di scrittori ucraini e russi c’era sempre grande analogia, un certo stile simile, ma Pidmohylnyi era uno scrittore del tutto originale col quale non esistevano queste analogie, apparteneva alla corrente del Modernismo. Però è rimasto praticamente ignoto ed è stato, appunto, fisicamente eliminato.

Le vicende di Victory Park si svolgono in un breve lasso di tempo, nell’anno 1984. Perché proprio quell’anno? Non può inoltre non richiamare alla memoria il celebre titolo di Orwell: casualità?
È una domanda che mi fanno tutti, ma è impossibile non farla (ride) e comunque è una coincidenza. Io ho ambientato tutto in quell’anno per un motivo ben preciso: fu l’ultimo anno in cui esistette l’Unione Sovietica nella sua forma più pura, diciamo staliniana, anche se dopo Stalin qualche presidente aveva introdotto qualche modifica, ma di poco conto, molto superficiale. Più tardi, nel 1985, si avviarono le riforme della perestrojka di Gorbačëv (fino al 1984 si trattava di un comunismo genuino). Adesso c’è anche una specie di nostalgia, perché si ricordano solamente le cose che si vogliono ricordare. Gli avvenimenti che descrivo non sono avvenimenti esattamente reali, però accadevano cose abbastanza simili.

I LIBRI DI ALEKSEJ NIKITIN