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Intervista a Alessandro Camilletti

Alessandro Camilletti
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Perché un musicista affermato, ad un certo punto della sua vita, decide di scrivere un romanzo? Per moda, si potrebbe pensare, ormai scrivono tutti. Invece no, l’esordio letterario di Alessandro Camilletti, musicista e compositore romano, ha un sottofondo diverso rispetto a chi si scopre ad essere scrittore senza nemmeno saperlo: Camilletti ha la passione. La passione per la scrittura e per un periodo storico, il Medioevo, che vuole essere raccontato con tenacia e precisione. Perché, in fondo, la connessione tra musica e scrittura c’è sempre stata e, come affermava il poeta romantico francese Émile Deschamps, la scrittura è una musica che pensa.




Sei musicista, compositore e maestro di musica. La tue note biografiche indicano il prestigioso conservatorio di Santa Cecilia come la tua seconda casa. Ma il tuo esordio narrativo, La guerra di Dio, è un romanzo storico ambientato nel Medioevo. Come nasce la passione della scrittura e, soprattutto, nei confronti di questo periodo storico?
Ho iniziato a scrivere da adolescente e mi sono dedicato per molti anni alla poesia. È stata una palestra che mi ha permesso di affinare molto la relazione tra parola e musica e probabilmente è il vero punto di contatto tra questi due mondi in cui si divide la mia vita. Ancora adesso quando scrivo o semplicemente leggo un libro è fondamentale per me avere a che fare con un testo che non si limiti soltanto a riportare qualcosa, ma che lo faccia con una veste formalmente accurata e gradevole: in un certo senso il testo deve “suonare” bene. Quanto alla passione per il medioevo, credo che alla base di tutto ci sia più che altro una certa curiosità: mi attirava l’idea di un periodo così ricco di contraddizioni e di passioni sfrenate. In seguito forse la cosa che mi ha entusiasmato di più è stata la dimestichezza con cui gli uomini medievali riescono a passare dal piano della natura concreta a quello invisibile e spirituale, dal simbolo alla sua essenza nascosta. Per loro ogni entità materiale non si esaurisce in sé stessa, ma rimanda alla sua vera natura che travalica i confini sensoriali. Per questo i teologi medievali non provano alcun imbarazzo quando tentano di dimostrare perfino l’esistenza di Dio partendo dall’osservazione del mondo che li circonda. Trovo che sia un atteggiamento estremamente affascinante perché, in tal modo, ogni individuo è chiamato a colmare in maniera (almeno emotivamente) attiva questa distanza, divenendo protagonista del proprio cammino di conoscenza e non soltanto fruitore inconsapevole, come a volte può accadere invece a noi.


A proposito di Medioevo: la storiografia è sostanzialmente divisa tra chi lo definisce un periodo storico oscuro (penso ad esempio a Jacob Burckhardt, il quale sottolinea la rottura tra Medioevo e Rinascimento) e chi, invece, sostiene il carattere  positivo del periodo, in cui si ebbe, per la prima volta, l’unione religiosa in Europa. Qual è il tuo pensiero?
Credo che ormai questa dicotomia che ha infiammato i dibattiti di molte generazioni di storici sia, in realtà, oggi completamente superata. Già intorno agli anni ’20 nasceva in Francia una nuova scuola di storici e storiografi che ha lentamente, ma inesorabilmente, portato al rovesciamento radicale di questa concezione, facendo riaffiorare gradualmente tutti quei germi di fervore culturale e artistico senza i quali il Rinascimento così come lo conosciamo non sarebbe mai potuto esistere. C’è stata anche una buona dose di malafede e di superficialità che ha fatto sì che un’idea tanto poco lusinghiera si propagasse così diffusamente. Ad esempio, è ancora opinione largamente condivisa dall’immaginario comune che il fenomeno della “caccia alle streghe” sia tipicamente medievale, mentre esso si sviluppa solamente a partire dalla fine del XVI secolo!
Detto questo, però, bisogna anche fare un’altra considerazione. Se accettiamo di classificare il Medioevo come quel periodo storico che va dalla caduta dell’impero romano d’occidente alla scoperta dell’America allora stiamo parlando di un periodo di circa mille anni di storia. Come è possibile dare una definizione univoca di un’epoca tanto lunga e caratterizzata da una frammentazione socio-politica tale che in certe regioni ogni città costituiva un piccolo universo distinto e separato dagli altri? Io credo che sia necessario operare molte distinzioni perché in fondo il Medioevo è stato un po’ tutto e un po’ il contrario di tutto. Anche per questo è così affascinante!


Romanzo storico vuol dire anche aderenza alla realtà e ai fatti narrati. Quali sono state le tue fonti?
Nello scrivere il libro la fedeltà ai grandi fatti storici che fanno da cornice alla vicenda principale è stata per me un punto d’onore. Ho consultato pressoché tutti i principali storici che si sono occupati delle crociate, nonché quelli che l’hanno raccontata da protagonisti (nel mio caso la cronaca di Villehardouin, che si concentra proprio sulla quarta crociata, era ovviamente un testo obbligatorio); e, alla fine, posso dire di essere orgoglioso delle cura meticolosa con cui mi sono sforzato di inserire solo notizie documentate. A parte questo, però, il mio intento principale non era di scrivere un saggio di storia. Volevo presentare il mondo medievale soprattutto a partire dalla sua quotidianità; in un certo senso, volevo farlo rivivere davanti agli occhi dei miei lettori. Per questo mi sono servito moltissimo di tutta quella produzione (soprattutto di area francese) che si è occupata di storia medievale cosiddetta “dal basso”, che prende le mosse cioè non tanto o non soltanto dai documenti ufficiali che sono il risultato di vicende politiche macroscopiche, ma che ha avuto per scopo il recupero di tutti quegli ambiti di “normalità” che per tantissimo tempo non hanno avuto alcuna parte all’interno della storiografia ufficiale semplicemente perché la storiografia ufficiale non li includeva nei suoi paradigmi. Sto parlando della storia del costume, della storia del cibo, delle tante storie del quotidiano che nel secolo scorso hanno cambiato radicalmente il modo di concepire la storia, e non solo la storia medievale.


La guerra di Dio è un romanzo corale in cui, rispetto alle vicende storiche, dai molta più importanza ai personaggi, al loro modo di pensare, amare e vivere. Sei d’accordo con questa interpretazione?
Sono talmente d’accordo da affermare anzi che questa è la vera chiave di lettura del romanzo. Più che raccontare una storia quello che mi premeva veramente era cercare di raccontare il mondo interiore dei personaggi che con quelle vicende entrano, ognuno a loro modo, in contatto; e così, attraverso i loro occhi, riuscire a parlare di un periodo storico tanto lontano da noi non soltanto da un punto di vista scientifico-monodimensionale, ma vivificato dalla molteplicità e varietà delle personalità che lo hanno popolato. Per me La guerra di Dio è un libro che, ancor più che delle vicende, racconta delle persone e, attraverso la pluralità dei loro punti di vista, prova a tracciare un quadro generale su un intero periodo storico. Lo sforzo maggiore non è stato tanto quello di essere fedele alla storiografia medievale, quanto cercare di ricreare delle personalità assolutamente credibili e quindi ricche di sfaccettature pur nella loro diversità.


Anche la religione è una componente fondamentale del tuo romanzo…
La vicenda che fa da sfondo al libro è la preparazione e la partenza della quarta crociata. Era inevitabile che la religione entrasse in maniera potente nel tessuto narrativo. Bisogna dire anche che gli uomini medievali, come ho già accennato, sono creature dotate di una forte inclinazione alla spiritualità. In questo senso il titolo del libro vuole rimandare non soltanto all’idea di guerra di religione che la crociata incarna, ma anche alla propensione di questi uomini a far entrare Dio in ogni aspetto della loro vita e delle piccole guerre personali che li vedono protagonisti; guerre combattute sempre in nome di una giustizia che ha la pretesa di non prendere le mosse semplicemente da un piccolo tornaconto personale, ma dalla vera Giustizia (quella con la “G” maiuscola) che, in ultima analisi, è anche la sola in grado di giustificare perfino le azioni più abiette e apparentemente contrarie ad essa. Del resto, proprio la quarta crociata non è forse uno degli esempi più eclatanti in questo senso di tutta la storia dell’occidente?


Tra i valori che spiccano nel tuo romanzo, sicuramente una grande importanza è data all’amore. L’amor cortese soprattutto, che dai trovatori provenzali trova la sua consacrazione nelle origini della nostra letteratura e una sorta di istituzionalizzazione con il De Amore di Andrea Cappellano. Sei d’accordo?
Sì, l’amore è presente sotto molte forme nel mio libro. C’è quello innocente del giovane Alberigo e quello perverso del barone Gualtieri, c’è quello passionale e idealizzato di Eloisa e quello intimo e altruista del maresciallo Ademar, c’è l’amore disilluso del capitano Manfredo e quello infantile di Guidone. Questo perché, secondo me, l’amore è la prima e la più profonda ambizione di ogni uomo; non c’è niente che compia prodigi come sa fare l’amore, né una forza altrettanto capace di tirare fuori tutto il meglio e il peggio della natura umana. Perfino la ricchezza e il potere non sono altro che un mezzo per arrivare ad esso, come ben ci rammenta il mito di Faust. Quanto all’amore cortese, non ho potuto fare a meno di inserire una citazione dal mondo musicale, riportando per intero la celeberrima No és meravella si el meu cant di Bernart de Ventadorn. Innegabilmente, quelli cortesi, sono valori che, ancora nel mondo moderno, continuano a mantenere vivo il loro fascino e la loro capacità di persuasione. Eppure, anche nel Medioevo, essi rappresentavano più che altro un’ideale letterario e la loro capacità di penetrazione nella società del tempo fu piuttosto limitata e circoscritta ad alcuni ambienti della più ricca e colta nobiltà. Andrea Cappellano era un religioso, eppure nel suo libro dichiara con la massima disinvoltura che il vero amore non può che esistere esclusivamente al di fuori del matrimonio. C’è da credere che avesse in mente un topos letterario e non un consiglio pratico per coppie “annoiate”.


Compositore e scrittore. La domanda è d’obbligo: quali sono le differenze tra lo scrivere su uno spartito e il creare su una pagina bianca?
Credo che le somiglianze siano maggiori delle differenze. Si parte da un’idea, uno spunto, ma poi è la capacità di sviluppare quelle intuizioni che fa veramente la differenza. Personalmente, ritengo che oggi ci sia una cronica inflazione di termini come “capolavoro” o “artista”, tanto in campo musicale che in quello editoriale. Così si finisce inevitabilmente per svalutare l’aspetto artigianale del lavoro creativo; ma la verità è che è proprio questo aspetto che rende possibile la creazione di un’opera, perché trasforma le idee in qualcosa di concreto e fruibile da tutti. Per il bene del risultato finale, bisogna essere disposti a cambiare, spostare, eliminare, rimettersi insomma sempre in discussione; senza questa umiltà è difficile che si arrivi a qualcosa di buono. A questo proposito, vorrei ricordare anche il lavoro dei miei editor , Manuela Pincitore e Costantino Margiotta. A loro va un grazie particolare per la bravura e l’impegno con cui si sono adoperati per migliorare La guerra di Dio.

I libri di Alessandro Camilletti