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Intervista a Alia Malek

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È un pomeriggio pigro e tiepido a Roma. In una piccola libreria nel cuore di Trastevere ci aspetta Alia Malek, giornalista e scrittrice americana di origini siriane, attivista vincitrice nel 2016 dello Hiett Prize in the Humanities, per parlare del suo libro. Una chiacchierata che inizia spontaneamente, ancor prima di sederci e registrare. L’autrice di Baltimora si schermisce per il suo italiano, in realtà davvero ottimo, e da subito la sua simpatia ed eloquenza sono disarmanti. Discute con noi del suo ultimo libro, della sua vita, della sua esperienza in Italia, di libri e di film, e soprattutto della sua Siria. Affronta ogni argomento, dal più leggero al più grave, con una passione trascinante, che ci fa quasi dimenticare che siamo qui per un’intervista – addio scaletta delle domande – e che fa sì che l’ora passata insieme scorra, ed è quasi un dispiacere, in un battito di ciglia. Ecco alcuni degli argomenti toccati durante questo lunghissimo, ricchissimo scambio.




Come sei arrivata dall’idea di scrivere un libro (Il paese che era la nostra casa) su tua nonna al dare vita a quello che è non solo un reportage e una storia familiare, ma anche una sorta di “guida storica” alle vicende siriane?
Conosci il giornalista Anthony Shadid, che è morto in Siria? Ha scritto il libro La casa di pietra. Ecco, il suo lavoro era così bello perché qualsiasi persona avrebbe potuto leggerlo, quelli che conoscono già bene il Medio Oriente ma anche chi non ne sa niente. Io volevo raggiungere la stessa accessibilità. Sembra molto difficile entrare nella storia della Siria e capire cosa sta succedendo oggi. Quando è così difficile è come con una medicina, devi aggiungere un po’ di zucchero. Non voglio dire che le vite delle persone siano zucchero, una cosa leggera o superficiale. Però è più facile entrare nella grande Storia quando si può viverla nella pelle di qualcuno. Quindi sapevo che dovevo scegliere un approccio narrativo, sapevo che doveva essere un lavoro accessibile a tutti. Quando qualcuno racconta del Medio Oriente, anche se sta parlando di un avvenimento molto recente, la storia comincia sempre venti o trent’anni prima. Così è impossibile capire cosa stia succedendo in Siria oggi guardando solo al 2011. C’era bisogno di capire che la linea di faglia c’era già, si è aperta cent’anni fa con la fine dell’impero ottomano. Io sono nata negli Stati Uniti, però i miei non erano venuti negli Stati Uniti con l’intenzione di rimanere, quindi io sono tornata spesso con mia madre in Siria e la nonna era sempre il centro del mio mondo lì. Poi nel 1980 è stato ucciso suo fratello e lei ha sofferto molto. Non siamo più tornati in Siria, io per almeno dodici anni. Lei era malata, ancora viva, però completamente bloccata nel suo corpo. Ed era quello che avevo capito anche della Siria. Il suo destino e il destino del Paese per me erano sempre intrecciati, per quello volevo scrivere di lei. In realtà ho sempre voluto scrivere un libro sulla Siria, ma negli Stati Uniti non c’era mai mercato, perché lì di un altro posto non frega a nessuno se non c’è un motivo, una grande tragedia, una guerra. Prima del 2011 non c’era un mercato e poi io sapevo bene che molti giornalisti sarebbero andati in Siria per fare carriera, volevo rispondere a tutto questo. Prima non c’erano tanti scrittori arabi americani, con più possibilità quindi di pubblicare un libro negli Stati Uniti. Io vengo da questa immigrazione che è stata possibile solo dopo il ’65, una generazione in cui tutti i genitori hanno spinto i figli a studiare legge, medicina, ingegneria. Non c’erano ancora tanti scrittori. Ma non volevo che solo quelli di fuori scrivessero libri sulla Siria.

Hai studiato giurisprudenza, come sei approdata poi al giornalismo?
Giurisprudenza negli Stati Uniti è un tipo di dottorato, viene dopo la laurea. Io sono stata assunta nel mio terzo anno di law school, cioè nell’ottobre ’99, quando il presidente era Clinton. Poi ho finito la law school e sono arrivata al ministero la terza settimana di ottobre del 2000, quando è stato eletto presidente George Bush e John Ashcroft era a capo del ministero della giustizia. Già il mio cammino non era più come lo avevo pensato. Dopo l’11 settembre si immaginava di rimandare tutti gli americani di origine araba al mondo arabo. Io volevo capire come mai fosse possibile parlare in questo modo di quegli americani – perché erano americani. Per me era sempre come se la mia generazione non esistesse, non eravamo nei libri, non eravamo nei libri di storia, nei romanzi, nei film. Quando c’erano gli arabi erano sempre terroristi, una cosa estranea, mai una cosa americana. Ho capito che c’era un problema di conoscenza. Ma non ho deciso di lasciare la legge, mi sono trasferita in Libano, stavo lavorando lì, poi sono tornata negli Stati Uniti per le elezioni del 2004. Alla fine – non la definirei crisi di metà vita, avevo solo trent’anni – ho deciso che litigare non mi piaceva quanto scrivere, raccontare. Ho trovato una strada migliore per me.

Quel concetto di “fascino”, di carisma che attribuisci al tuo bisnonno, sembra applicabile anche – e soprattutto – alle molte donne che compaiono nel tuo racconto. La bisnonna, la stessa nonna Salma, hanno un grande carisma. E soprattutto, la capacità di tenere le fila, in un certo senso, della società…
Lei, la nonna, era straordinaria, ma anche ordinaria. E da quando è uscito il libro ci sono stati tanti siriani che mi hanno rivelato di avere una zia così, oppure una madre o una nonna. La società siriana è andata avanti perché c’erano donne così. C’è stato un trauma dopo l’altro: alla fine del diciannovesimo secolo il crollo dell’impero ottomano, poi le due Guerre Mondiali, la presenza francese, il genocidio degli armeni, poi quello che è successo ai palestinesi…la Siria ha dovuto sempre sopravvivere, ma non è stato come negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, non c’era mai tempo. Per me è incredibile che la società non sia sgretolata completamente, e lo dobbiamo a queste donne – anche a molti uomini, ovviamente. Però chi ha mantenuto una “sanità” collettiva sono state proprio le donne. Davanti al fallimento di uno Stato, delle superpotenze, allora è toccato alla gente trovare un modo per andare avanti.

Parlando dei tuoi genitori, del loro desiderio di tornare in Siria, della profonda nostalgia per la loro casa, scrivi: “Come per molte altre cose, la loro nostalgia era diventata anche la mia”. Come si può ereditare la nostalgia?
Un poeta palestinese ha detto che “la nostalgia è una puttana” o una cosa di questo genere. E lo è, è una cosa che ti tiene paralizzato, bloccato. Per me funzionava così, e anche per loro. Soprattutto perché eravamo così da soli negli Stati Uniti all’inizio, senza parenti. Ed era difficile, forse anche perché la cosa più intima è sempre la famiglia, la casa. Al di fuori, nessuno pronuncia il mio nome nel modo giusto, è strano, è un’altra vita. La nostalgia dà una certa ombra a tutto, un’ombra che forse altrimenti non ci sarebbe, for better or for worse.

Nel libro fai riferimento all’Italia più di una volta. So che hai studiato e vissuto qui. Come sei arrivata in Italia, com’è il tuo rapporto con il Paese? Leggi in italiano?
Io ho fatto la scuola pubblica negli Stati Uniti, per le lingue straniere si poteva scegliere tra spagnolo e francese. Io volevo studiare spagnolo perché era utile, però i miei genitori avevano vissuto sotto l’ombra della Francia – mia madre aveva frequentato il liceo francese –, quindi ho dovuto studiare il francese. Negli Stati Uniti il terzo anno di università si può studiare all’estero. Ho avuto l’opportunità di venire a Bologna, ad un centro della mia università americana. Avevo diciannove anni. I ragazzi erano belli, la politica era molto più di sinistra rispetto agli Stati Uniti. Poi dopo la laurea sono tornata a lavorare a Milano. La lingua italiana è bellissima, e rivedo un po’ di me stessa qui. Perché è un Paese mediterraneo ed è una sorta di Medioriente, con problemi diversi, ma che funziona meglio, è un po’ quello che il Medioriente potrebbe essere. Non ho studiato l’italiano, vado a orecchio. Leggo in italiano, ma è difficile. All’università ho letto Il gattopardo, mi fece davvero molta impressione. Ho visto molti film in italiano, come il bellissimo Ladri di biciclette.

Un concetto ricorrente è la “duplice vergogna” che il popolo siriano è stato costretto a sopportare: essere vittime e spettatori allo stesso tempo, essere costretti a guardare, ritrovarsi ad essere complici senza essere colpevoli…
È un vero tumore, qualcosa muore dentro. Ed è frutto di quelle dinamiche che a me interessano molto di più rispetto al discorso che si ostinano a fare sulla Siria, sul Medioriente, sullo scontro teologico tra sciiti, sunniti, che non c’entra assolutamente niente. È una vergogna parlare sempre e solo di questo, come fosse un altro pianeta. Invece le cose che muovono la storia, la società, sono uguali ovunque, sono le stesse, anche se c’è sempre un contesto particolare, una specificità. Però si tratta sempre di potere, soldi, amore, rabbia. Queste sono le costanti.

So che è una domanda difficile, forse la più difficile. Quali speranze, quale futuro prossimo vedi per la Siria?
Parlare di speranza è un po’ difficile. La speranza è nella possibilità di avere giustizia per le vittime, del regime o dell’opposizione. Non c’è futuro se facciamo finta che niente sia successo e torniamo a come era prima. Noi siamo su questo cammino ora. Un po’ di speranza mi deriva dal fatto che ora c’è qualche caso in tribunale. Tante persone che hanno fatto delle cose terribili in Siria durante la guerra sono andate in Europa e lì e sono state riconosciute da altri siriani. Come ho scritto nel libro, lo Stato ha sempre giocato questo ruolo di “mediatore” tra i siriani, tra le persone, come un muro. Ora invece ci sono tanti siriani che sono fuori dalla Siria e c’è la possibilità di conoscersi in un modo prima impensabile. Finalmente possono parlare direttamente, e magari da questo può nascere qualcosa di nuovo. Per ora i siriani sono esauriti, ma quando arriverà il giorno della ripresa non lo faranno con ingenuità, ora capiscono bene il mondo in cui viviamo. Una cosa che voglio dire e che non ho detto chiaramente nel libro è che per me è un momento nella storia dell’umanità abbastanza grave. Perché il messaggio di tutto questo, qual è? Che possiamo continuare ad osservare cosa sta succedendo e non fare niente? Il messaggio che abbiamo rivolto ai siriani è che se vogliono rimanere a casa dovranno ingoiare tutta questa ingiustizia, o se vogliono andare fuori dovranno convivere con l’umiliazione di essere profughi. O ancora, che se vogliono rimanere e lottare – ed è ciò che tutti professiamo di avere come ideale – lo faranno da soli, rischiando la vita. Cosa abbiamo imparato? È stato un fallimento, per il mondo.

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