Andrea Pedrinelli è giornalista, scrittore, critico musicale, autore di testi teatrali. Collabora con numerose testate giornalistiche tra cui “Avvenire”. Ha pubblicato libri dedicati tra gli altri a Ron, Baglioni, Renato Zero e per anni si è dedicato a divulgare nelle scuole l’opera di Giorgio Gaber e Sandro Luporini. Per il teatro ha ideato lo spettacolo Il saltimbanco e la luna, dedicato ad Enzo Jannacci e magistralmente interpretato da Susanna Parigi e ancora l’incontro-spettacolo dedicato a Claudio Abbado dal titolo Blind Date per Claudio Abbado - Orazione civile. Ama i gatti.
Nell’affrontare un artista come Zero, qual è la cosa che ti ha sorpreso di più?
Confesso che non pensavo che la sua gavetta fosse stata tanto lunga e difficoltosa. Intendiamoci, sapevo benissimo che aveva cominciato ragazzino, che aveva fatto mille esperienze fra cui il ballerino in RAI e il teatro, che il successo non era arrivato subito, per lui come cantante. Ma è impressionante la mole di lavoro (e di fatica, e purtroppo di difficoltà) che si è dovuto sobbarcare prima di imporsi con “Mi vendo”, dopo ben dodici anni di gavetta. Dovrebbero prendere esempio da Renato, certi idoli da talent show che oltre alla fortuna di diventare famosi in un lampo, non si rendono conto di quanto costi formarsi un mondo e una personalità espressiva. Certo, Renato cinquant’anni dopo è ancora qui, loro fanno fatica a fare due dischi in fila… E da critico devo dire che non vedo bei dischi, Giusy Ferreri a parte, dei personaggi da talent. Però se i giovani artisti guardassero a uno come Zero quale esempio anche per la gavetta fatta, forse ne avremmo in giro di più, di artisti giovani con un futuro.
Cosa ti ha fatto decidere di dedicare proprio a Renato Zero questo tuo nuovo lavoro?
In realtà è stata una scelta a quattro mani con Riccardo Bertoncelli, cui devo anche la pubblicazione del libro su Enzo Jannacci. A suo avviso mancava un volume di lettura critica seria di un artista che comunque ha segnato più epoche e non è certo un mero fenomeno di costume. Io seguo Zero da quando avevo diciotto anni, dunque già lo conoscevo, lo stimavo, lo consideravo un’eccellenza: non solo un artista capace di riempire il palco da solo e porgere messaggi importanti, non solo un musicista ricco di intuizioni anticipatorie, ma anche un grande interprete e un ottimo autore puro. Ed è stato bello sentirsi proporre di analizzare anche lui con uno sguardo scientifico, come accade nel Regno Unito o negli States anche se parli di personaggi meteora. Zero in fondo conferma una cosa cui credo molto, e che nel mio lavoro mi batto per affermare e approfondire: la canzone “pop”, ovvero popolare, è parte della cultura popolare. Dunque non va banalizzata, dimenticata, guardata solo come immagine, occorre storicizzarla e darle prospettiva critica e filologica. Per non dimenticare il nostro passato e tenere viva l’arte della canzone per il futuro. Cercando ovviamente di parlare a tutti, però: ed è per questo che poi da una lunga ricerca ho scelto di trarre un “romanzo”, cioè di dare un approccio discorsivo e adatto a chiunque a un’analisi che è stata complessa e che spero risulti, alla lettura, profonda.
Ti sei occupato dei grandi della musica italiana, cosa manca oggi alle nuove proposte contemporanee per diventare uno di loro?
Mi sa che in parte ti ho già risposto. Se penso a Zero, ma anche a Massimo Ranieri, per dirne un altro, mancano la fame, la gavetta, la capacità che è quasi necessità di crearsi un mondo, un sapere, un’arte: per imporsi e restare ad alti livelli. Pensiamo a Mengoni: ha la voce, certo. E poi? Quale repertorio? Quale “mondo” espressivo? Togli le apparenze, togli il “personaggio” che gli hanno montato addosso nel talent, cosa rimane? Zero debuttò con brani come “Inventi”, “Tu che sei mio fratello”, ancora oggi dei classici. E già in “No! Mamma, no!”, il suo primo disco, c’è un mondo compiuto: fra l’altro lui è l’unico italiano ad avere proposto un’espressione personale compiuta in tutti i sensi, compreso quello estetico, oltre che a livello di testi e suoni. Ma Renato arriva a quel disco, appunto, dopo un decennio di gavetta, di insulti, di bocciature: e di ricerca, di crescita, di studio. Arrivare alla vetta “costruiti” a tavolino, dopo un solo mese di talent show, può bastare ad avere un anno, forse due, di successi. Ma sfido chiunque a citarmi un brano di Mengoni, per restare a lui che spesso assurdamente è paragonato a Zero, che sia rimasto nella cronaca. Figurarsi se passa alla storia. E non è colpa del ragazzo, o almeno lo è solo in minima parte, se da un po’ la gavetta non serve: anche Nek è arrivato dopo una lunga gavetta, Laura Pausini cantava nei pianobar… I risultati, e la differenza, si vedono.
Programmi televisivi dedicati alla scoperta di nuovi talenti, fanno bene o male alla musica?
Mogol mi ha detto che il talento se ce l’hai ce l’hai, non lo scopre la tv. La tv semmai costruisce su un qualcosa di evidente (voce, presenza scenica, personalità) una mucca da mungere per l’audience di un anno, massimo due. Non le interessa altro. È interessante leggere cosa ha scritto Valerio Scanu, sul down che per lui è seguito al momento di successo che ha avuto dopo la tv. Questi ragazzi vengono illusi, se gli va bene diventano famosi per un po’, poi diventano dei frustrati perché nessuno gli ha insegnato davvero a fare il mestiere della musica. E c’è chi ha detto che oggi ci sono due possibilità: essere bocciati dai talent e sentirsi frustrati, o entrarvi, vincerli e diventarlo due anni dopo… Non è male, peccato sia molto vera come frase. E non è un caso se gli unici artisti giovani che hanno una qualità oggi sono gente come i Negramaro (che vengono dalla gavetta, persino Sanremo li rigettò) o Malika Ayane (che viene dalla lirica…). Io salvo solo la Ferreri che del resto ha fatto appunto gavetta, e comunque dopo X-Factor si è vista bocciare i brani suoi, rappresentativi di un mondo espressivo, per farsi bruciare nelle cover. È ancora in piedi perché ha imparato il mestiere. Ma non l’ha fatto certo in tv… Dove peraltro si è giudicati da Elio o Rudy Zerbi. Con che criterio? Con che competenza? Non conta vi sia, è un gioco mediatico, ovvio. Che va bene ai discografici perché così portano a casa qualche soldo in fretta. Ma sono discografici veri, quelli di oggi? Nanni Ricordi o Vincenzo Micocci, quando lavoravano a Paoli o Ron, lavoravano in ben altro modo. E sapevano quel che facevano, avevano anche il coraggio di aspettare perché l’artista non si bruciasse.
Quanto secondo te la vita e le esperienze personali di un artista è giusto che diventino narrazione musicale?
Credo che un artista abbia due soli doveri. Uno è quello di avere un suo “mondo”: se non ce l’ha, l’abbiamo già detto, non resta, non vale. È un’immagine e basta. Poi nel “mondo” uno può mettere i sogni, come fa Paolo Conte, l’impegno politico o poetico come capitava a Gaber o capita a De Gregori, o l’esperienza stradaiola con molta autoreferenzialità come fa Renato Zero. Poi, a mio avviso, ci sono dei limiti nella scrittura dei testi: quando hai davanti, almeno potenzialmente, milioni di ascoltatori spesso giovanissimi, qualche paletto etico te lo devi porre. Se non accade, forse come persona minimo non sei matura. Perché nella vita gli artisti possono fare ciò che vogliono, come ognuno di noi: ma cantare di drogarsi, per dirne una, non è libertà. Semmai è dannosissimo libero arbitrio. E anche in questo Zero è stato molto bravo, perché usava scientemente le provocazioni – molto ironiche, si vedano i filmati d’epoca – di “Triangolo” per cantare appunto contro la droga o per i valori della vita in altri brani degli stessi dischi in cui qua e là provocava.
Dopo Il saltimbanco e la luna ci saranno altri spettacoli?
Ci sono molte idee, per ora. Sia di libri che di spettacoli. Che poi più che spettacoli i miei sono stati e saranno testimonianze portate alla gente usando il palco anziché la carta stampata. Non mi piacciono i giornalisti che recitano, di solito sono attori tremendi. L’idea, anche ne Il saltimbanco e la luna, era invece mettersi in gioco per raccontare quanto visto, imparato, appuntato facendo il mio mestiere “normale”. Incontrando magari grandi artisti o, come era il caso di Jannacci, grandi persone. E restano tante cose e tante persone, da testimoniare, anche restando solo nell’ambito della canzone italiana. Un po’ lo faccio nei libri, un po’ sui giornali, un po’ in qualche scuola (anche della cosiddetta “terza età”), un po’ continuerò a farlo sul palco. Il prossimo progetto, che non so quando andrà in porto, riguarderà un’eccellenza assoluta della nostra musica, che abbiamo insultato e svilito in modo indegno. Ma è presto per svelare a chi mi riferisco. Certo anche lì sarò un testimone, non un attore.
Puoi dirci qualcosa del tuo ultimo lavoro dedicato al maestro Claudio Abbado?
Blind Date per Claudio Abbado è nato dalla coscienza dell’eredità etica e politica, in senso alto, del Maestro. Mi sembrava doveroso provare, nel mio piccolo, a trasmetterla. Dunque ho raccolto le sue parole e, senza ambizioni da critico musicale colto, ho dato vita a una piccola orazione civile nella quale porgo quelle parole al pubblico così come sono state pronunciate, tenendole però con questo vive. Non recito, non impersono lui, trasmetto, appunto testimonio, le sue scelte, il suo rigore, le sue lezioni di vita. Tutto inframmezzato da brani di musica al buio, da qui “Blind Date”, per testimoniarne anche l’arte e magari spingere chi assiste al lavoro a scoprire o approfondire la musica colta e soprattutto a rendersi conto che la musica su disco è ben altra cosa dell’Mp3 e dell’ascoltarla su Ipod e computer. È vero che ci stiamo abituando a mangiare salami di legno e cose simili, però come lottiamo per un cibo vero e genuino occorre ribellarsi anche a questo andazzo per cui dischi e libri si possono sostituire con i portati della cosiddetta “evoluzione tecnologica”. No, un disco fisico ha un suono diverso, anzi ha il suono che il suo autore voleva avesse, addirittura gli LP suonano meglio dei CD. E si tratta sempre di oggetti che sono più che oggetti, vere e proprie testimonianze della nostra storia e della nostra cultura. Una playlist di mille brani sull’iPod non vale neanche lontanamente avere gli stessi brani su disco: con ben altro suono e con tutto il resto (dalle note alle scelte estetiche delle copertine) che i dischi regalano a livello storico e contenutistico. E devo dire che ascoltando la musica al buio, molti comprendono subito cosa sia davvero ascoltare un disco: faccenda che ai nostri ragazzini non è neppure fatta balenare, perché conviene più provare a vendergli la musica liquida. Ma quando i ragazzi sentono la differenza, non essendo stupidi, immediatamente la colgono. Ed è bello fargliela cogliere assieme all’eredità di un uomo libero e di vette etiche straordinarie quale è stato Claudio Abbado.