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Intervista a Andrea Pedrinelli

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Andrea Pedrinelli è giornalista, scrittore, critico musicale, autore di testi teatrali. Collabora con numerose testate giornalistiche tra cui “Avvenire”. Ha pubblicato libri dedicati tra gli altri a Ron, Baglioni, Renato Zero e per anni si è dedicato a divulgare nelle scuole l’opera di Giorgio Gaber e Sandro Luporini. Per il teatro ha ideato lo spettacolo Il saltimbanco e la luna, dedicato ad Enzo Jannacci e magistralmente interpretato da Susanna Parigi e ancora l’incontro-spettacolo dedicato a Claudio Abbado dal titolo Blind Date per Claudio Abbado - Orazione civile. Ama i gatti.




Quando è nata la tua passione per Enzo Jannacci?
Praticamente subito, a due-tre anni. Ricordo che fra i miei giochi c’era un mangiadischi giallo limone, uno da 45 giri, e io mentre giocavo ascoltavo i dischi. Tra i dischi c’era “Vengo anch’io. No, tu no” di Jannacci, e io amavo metterlo spesso, soprattutto sul lato B di “Giovanni, telegrafista”. Poi attorno agli otto anni ho scoperto in casa l’LP “Milano canta”, canzoni di Milly e di Jannacci, e lì ho iniziato ad amare l’Enzo milanese. Da adolescente ero un fan, me lo ricordo a Saint Vincent a cantare “L’animale” fingendo che il pollice fosse un microfono, smascherando il playback dilagante. Fra i 15 e i 20 anni ho ricuperato i suoi primi album, e ascoltavo spessissimo “L’importante”. Poi a Sanremo con “La fotografia” ho pianto: e quello di quel brano è stato anche il primo Cd che ho recensito, per una rivista milanese di quartiere.


Vi siete conosciuti, frequentati e avete condiviso molte esperienze. C'erano differenze tra lo Jannacci privato e quello pubblico?
Enzo era fondamentalmente timido. E poi era facile passasse dall’euforia alla cupezza. Molte cose l’avevano segnato sin da piccolo, dalla miseria del dopoguerra all’emarginazione per il suo modo di parlare… In realtà lui metteva in scena se stesso: quando scriveva nasceva tutto insieme, musica, testo, arrangiamento, interpretazione. Semmai sul palco aveva l’accortezza di non rendere mai pubblici i propri convincimenti intimi (preferiva far riflettere liberamente sulle storie che raccontava) e la grandezza di rispettare il pubblico, mescolando comicità e tragedia ma lasciando un fondo di leggerezza. Conoscere la persona era andare a fondo di una sensibilità pazzesca, e di una coscienza molto consapevole di parole come etica o valori. Non era facile si aprisse, però quando capiva di avere di fronte persone serie, nel mio caso un giornalista preparato, e che condividevano certi valori, allora era magnifico. Si partiva da una canzone e lui parlava del padre, della guerra, delle censure, degli ideali su cui si reggeva la sua vita. Non era come incontrare un altro cantante, erano lezioni di vita e umanità dette spesso commuovendosi. Ma del resto che tutto nell’artista appartenesse veramente all’uomo lo dice quanto ha aiutato i giovani e come ha fatto, su più fronti e con grossi sacrifici, il mestiere di medico.


Tu scrivi spesso libri dedicati a personaggi del mondo della musica: perché stavolta hai scelto di parlare di Enzo?
L’ho sentito come un’esigenza. Nata tre anni fa, nel 2011, verificando quanto poco fosse conosciuto anche dagli addetti ai lavori. E quanti lo considerano tuttora un clown, se non addirittura un matto. Secondo me è all’altezza di gente come Gaber e De Andrè. Anzi, se posso permettermi è superiore. Tutti lo definiscono un genio, ma a parte questo ci sono due dati di fatto: Enzo scriveva da solo, senza i Pagani, i Bubola o i Luporini del caso; e appunto viveva sino in fondo la propria poetica, sporcandosi le mani sino in fondo con la vita, da medico e volontario per drogati o extracomunitari. Ritenevo dunque meritasse non solo un libro, ma un libro pensato per farne percepire il peso di patrimonio culturale. Nonché, appunto, umano: condividere con altri quanto mi ha insegnato, in tempi cupi e aggressivi come questi, è stata un’altra esigenza che mi ha fatto iniziare a lavorare attorno alla sua opera. Non solo con il libro: per il quale devo ringraziare Riccardo Bertoncelli e Giunti. Altri l’avevano rifiutato, “troppo intelligente per i nostri lettori”, “Jannacci non interessa a nessuno”…


In passato ti sei occupato anche di Gaber e hai creato un format per la divulgazione del Gaber/Luporini pensiero; com'è stata questa esperienza?
Molto appagante, malgrado tanti ostacoli incontrati sul percorso e il fatto che pochi ricordino che in effetti sono stato il primo a creare il concetto di “incontro-spettacolo”, nonché a declinarlo su Gaber senza usare Gaber per ottenere qualcosa. Pazienza. Però è stato appunto appagante. Appagante perché la gente ha bisogno di sentire riflessioni “alte” ma anche “altre”, diverse cioè da quelle che si sentono nei media odierni. E i ragazzi nelle scuole restano affascinati dal pensiero gaberiano. Ormai sono undici anni che lo porto nelle scuole, e anche in serale se si può: finché sarà possibile andrò avanti a farlo. Il compenso vero è proprio quello, in fondo: gli occhi della gente e dei ragazzi. Ed è stato quando Luporini mi ha detto che il mio progettino era l’unico fra mille che veramente parla di lui e Giorgio, di com’erano e cosa hanno fatto. Senza spostare i riflettori su Andrea Pedrinelli o saltare volutamente certi testi, stili, canzoni.


Come omaggio a Jannacci è nato Il saltimbanco e la luna: ce ne parli?
È stata la prima creatura nata dall’esigenza di cui sopra. Costruire un format di incontro-spettacolo per le biblioteche in cui divulgare le canzoni davvero importanti per Enzo e le parole che mi ha detto, come a rispondere tramite esse al degrado, che ho vissuto dall’interno, di giornalismo e mondo degli artisti. Avevo bisogno di tre cose, però. La prima era un artista che sapesse cantare e suonare bene e fosse puro: e l’ho trovato con Susanna Parigi, di cui poi ho prodotto il disco con le magnifiche riletture per pianoforte di “La fotografia”, “Come gli aeroplani”, “Natalia”, “Mamma che luna che c’era stasera”, “Vincenzina”, “Io e te”…. È durissimo e scomodo, rileggere Jannacci: Susanna è stata coraggiosa e magnifica. La seconda cosa era che Enzo fosse informato del progetto e non ne venisse disturbato, e lui pur già molto sofferente mi fece sapere di essere “gratificato e commosso” da quanto stavamo facendo. La terza cosa era aiutare gli altri come faceva lui, e per questo ci siamo legati a “Scarp de’ tenis”, mensile di strada edito da Caritas Ambrosiana, e lo portiamo con noi nelle serate raccogliendo fondi per i senza casa e non solo. Mi sa però che devo spiegare il titolo… Il “Saltimbanco” è Jannacci, come si definiva, l’artista che deve dire le cose che vede a prescindere da quanto gli costa farlo davvero; e la “Luna” è la realtà, stando alle metafore jannacciane, che il Saltimbanco guarda mentre gli altri sono distratti dal tran-tran quotidiano. Certo non mi aspettavo che questo concerto teatrale, prodotto dagli Eccentrici Dadarò, ottenesse tanto consenso dovunque va, e arrivasse intanto ai teatri, altro che biblioteche; e poi persino al Club Tenco. Paolo Jannacci di recente ci ha gratificato di un abbraccio che vale più di mille parole. Come per Gaber, porterò l’etica e l’arte di Enzo dovunque: il progetto non ha scadenza, non essendo commerciale.


Cosa contiene Roba minima?
Spero tutto. Tranne la vita privata, ovviamente. Enzo ha inciso 233 canzoni e le ho analizzate una ad una, fra le tante dichiarazioni lasciatemi da lui negli anni e intervistando una cinquantina fra colleghi, arrangiatori, discografici, musicisti, amici… Nonché recuperando, a fatica, dischi reputati introvabili. Vorrei fosse il “libro bianco di Jannacci”, come quello dei Beatles. Lo apri a caso e scopri faccende inattese tipo la canzone su piazza Fontana o denunce della Tv ante litteram; vuoi approfondire un brano e trovi storie mai raccontate, che so, su “El portava i scarp del tennis” o “Vengo anch’io”, nonché i veri significati dei pezzi più ostici; vuoi leggerlo dall’inizio e adagio adagio, seguendo le canzoni, scopri anche l’uomo, dal rapporto col padre alla fede espressa solo negli ultimi anni, dall’impegno civile alle amicizie decisive. Per provare a non dimenticare niente alle 233 schede si aggiungono una ventina di approfondimenti, sullo Jannacci jazzista, il rapporto con Cochi e Renato o Fo o Beppe Viola, la tv, il teatro, il cinema di Jannacci, lo Jannacci medico, gli esordi al Gerolamo, Bianciardi, Beckett e Tenco… È stato un lavoro di tre anni ma se lo meritava. Uno che nel bel mezzo di un’intervista si ferma e, occhi lucidi, ti dice “Ricorda, Pedrinelli, con la coscienza non si traffica. Mai” meritava che qualcuno fermasse su carta la sua arte, la sua umanità, il fatto che no, non è stato un clown. Ma un artista inimitabile, che avendo avuto la fortuna di conoscere ora sento il dovere di testimoniare. Da qui a… sempre, condividendo nel mio piccolo la frase di cui sopra. Che si paga, sì: ma è il prezzo per guardarsi allo specchio, no? Scrivere di Mengoni non mi permetterebbe di farlo.

Nell’affrontare un artista come Zero, qual è la cosa che ti ha sorpreso di più?
Confesso che non pensavo che la sua gavetta fosse stata tanto lunga e difficoltosa. Intendiamoci, sapevo benissimo che aveva cominciato ragazzino, che aveva fatto mille esperienze fra cui il ballerino in RAI e il teatro, che il successo non era arrivato subito, per lui come cantante. Ma è impressionante la mole di lavoro (e di fatica, e purtroppo di difficoltà) che si è dovuto sobbarcare prima di imporsi con “Mi vendo”, dopo ben dodici anni di gavetta. Dovrebbero prendere esempio da Renato, certi idoli da talent show che oltre alla fortuna di diventare famosi in un lampo, non si rendono conto di quanto costi formarsi un mondo e una personalità espressiva. Certo, Renato cinquant’anni dopo è ancora qui, loro fanno fatica a fare due dischi in fila… E da critico devo dire che non vedo bei dischi, Giusy Ferreri a parte, dei personaggi da talent. Però se i giovani artisti guardassero a uno come Zero quale esempio anche per la gavetta fatta, forse ne avremmo in giro di più, di artisti giovani con un futuro.

Cosa ti ha fatto decidere di dedicare proprio a Renato Zero questo tuo nuovo lavoro?
In realtà è stata una scelta a quattro mani con Riccardo Bertoncelli, cui devo anche la pubblicazione del libro su Enzo Jannacci. A suo avviso mancava un volume di lettura critica seria di un artista che comunque ha segnato più epoche e non è certo un mero fenomeno di costume. Io seguo Zero da quando avevo diciotto anni, dunque già lo conoscevo, lo stimavo, lo consideravo un’eccellenza: non solo un artista capace di riempire il palco da solo e porgere messaggi importanti, non solo un musicista ricco di intuizioni anticipatorie, ma anche un grande interprete e un ottimo autore puro. Ed è stato bello sentirsi proporre di analizzare anche lui con uno sguardo scientifico, come accade nel Regno Unito o negli States anche se parli di personaggi meteora. Zero in fondo conferma una cosa cui credo molto, e che nel mio lavoro mi batto per affermare e approfondire: la canzone “pop”, ovvero popolare, è parte della cultura popolare. Dunque non va banalizzata, dimenticata, guardata solo come immagine, occorre storicizzarla e darle prospettiva critica e filologica. Per non dimenticare il nostro passato e tenere viva l’arte della canzone per il futuro. Cercando ovviamente di parlare a tutti, però: ed è per questo che poi da una lunga ricerca ho scelto di trarre un “romanzo”, cioè di dare un approccio discorsivo e adatto a chiunque a un’analisi che è stata complessa e che spero risulti, alla lettura, profonda.

Ti sei occupato dei grandi della musica italiana, cosa manca oggi alle nuove proposte contemporanee per diventare uno di loro?
Mi sa che in parte ti ho già risposto. Se penso a Zero, ma anche a Massimo Ranieri, per dirne un altro, mancano la fame, la gavetta, la capacità che è quasi necessità di crearsi un mondo, un sapere, un’arte: per imporsi e restare ad alti livelli. Pensiamo a Mengoni: ha la voce, certo. E poi? Quale repertorio? Quale “mondo” espressivo? Togli le apparenze, togli il “personaggio” che gli hanno montato addosso nel talent, cosa rimane? Zero debuttò con brani come “Inventi”, “Tu che sei mio fratello”, ancora oggi dei classici. E già in “No! Mamma, no!”, il suo primo disco, c’è un mondo compiuto: fra l’altro lui è l’unico italiano ad avere proposto un’espressione personale compiuta in tutti i sensi, compreso quello estetico, oltre che a livello di testi e suoni. Ma Renato arriva a quel disco, appunto, dopo un decennio di gavetta, di insulti, di bocciature: e di ricerca, di crescita, di studio. Arrivare alla vetta “costruiti” a tavolino, dopo un solo mese di talent show, può bastare ad avere un anno, forse due, di successi. Ma sfido chiunque a citarmi un brano di Mengoni, per restare a lui che spesso assurdamente è paragonato a Zero, che sia rimasto nella cronaca. Figurarsi se passa alla storia. E non è colpa del ragazzo, o almeno lo è solo in minima parte, se da un po’ la gavetta non serve: anche Nek è arrivato dopo una lunga gavetta, Laura Pausini cantava nei pianobar… I risultati, e la differenza, si vedono.

Programmi televisivi dedicati alla scoperta di nuovi talenti, fanno bene o male alla musica?
Mogol mi ha detto che il talento se ce l’hai ce l’hai, non lo scopre la tv. La tv semmai costruisce su un qualcosa di evidente (voce, presenza scenica, personalità) una mucca da mungere per l’audience di un anno, massimo due. Non le interessa altro. È interessante leggere cosa ha scritto Valerio Scanu, sul down che per lui è seguito al momento di successo che ha avuto dopo la tv. Questi ragazzi vengono illusi, se gli va bene diventano famosi per un po’, poi diventano dei frustrati perché nessuno gli ha insegnato davvero a fare il mestiere della musica. E c’è chi ha detto che oggi ci sono due possibilità: essere bocciati dai talent e sentirsi frustrati, o entrarvi, vincerli e diventarlo due anni dopo… Non è male, peccato sia molto vera come frase. E non è un caso se gli unici artisti giovani che hanno una qualità oggi sono gente come i Negramaro (che vengono dalla gavetta, persino Sanremo li rigettò) o Malika Ayane (che viene dalla lirica…). Io salvo solo la Ferreri che del resto ha fatto appunto gavetta, e comunque dopo X-Factor si è vista bocciare i brani suoi, rappresentativi di un mondo espressivo, per farsi bruciare nelle cover. È ancora in piedi perché ha imparato il mestiere. Ma non l’ha fatto certo in tv… Dove peraltro si è giudicati da Elio o Rudy Zerbi. Con che criterio? Con che competenza? Non conta vi sia, è un gioco mediatico, ovvio. Che va bene ai discografici perché così portano a casa qualche soldo in fretta. Ma sono discografici veri, quelli di oggi? Nanni Ricordi o Vincenzo Micocci, quando lavoravano a Paoli o Ron, lavoravano in ben altro modo. E sapevano quel che facevano, avevano anche il coraggio di aspettare perché l’artista non si bruciasse.

Quanto secondo te la vita e le esperienze personali di un artista è giusto che diventino narrazione musicale?
Credo che un artista abbia due soli doveri. Uno è quello di avere un suo “mondo”: se non ce l’ha, l’abbiamo già detto, non resta, non vale. È un’immagine e basta. Poi nel “mondo” uno può mettere i sogni, come fa Paolo Conte, l’impegno politico o poetico come capitava a Gaber o capita a De Gregori, o l’esperienza stradaiola con molta autoreferenzialità come fa Renato Zero. Poi, a mio avviso, ci sono dei limiti nella scrittura dei testi: quando hai davanti, almeno potenzialmente, milioni di ascoltatori spesso giovanissimi, qualche paletto etico te lo devi porre. Se non accade, forse come persona minimo non sei matura. Perché nella vita gli artisti possono fare ciò che vogliono, come ognuno di noi: ma cantare di drogarsi, per dirne una, non è libertà. Semmai è dannosissimo libero arbitrio. E anche in questo Zero è stato molto bravo, perché usava scientemente le provocazioni – molto ironiche, si vedano i filmati d’epoca – di “Triangolo” per cantare appunto contro la droga o per i valori della vita in altri brani degli stessi dischi in cui qua e là provocava.

Dopo Il saltimbanco e la luna ci saranno altri spettacoli?
Ci sono molte idee, per ora. Sia di libri che di spettacoli. Che poi più che spettacoli i miei sono stati e saranno testimonianze portate alla gente usando il palco anziché la carta stampata. Non mi piacciono i giornalisti che recitano, di solito sono attori tremendi. L’idea, anche ne Il saltimbanco e la luna, era invece mettersi in gioco per raccontare quanto visto, imparato, appuntato facendo il mio mestiere “normale”. Incontrando magari grandi artisti o, come era il caso di Jannacci, grandi persone. E restano tante cose e tante persone, da testimoniare, anche restando solo nell’ambito della canzone italiana. Un po’ lo faccio nei libri, un po’ sui giornali, un po’ in qualche scuola (anche della cosiddetta “terza età”), un po’ continuerò a farlo sul palco. Il prossimo progetto, che non so quando andrà in porto, riguarderà un’eccellenza assoluta della nostra musica, che abbiamo insultato e svilito in modo indegno. Ma è presto per svelare a chi mi riferisco. Certo anche lì sarò un testimone, non un attore.

Puoi dirci qualcosa del tuo ultimo lavoro dedicato al maestro Claudio Abbado?
Blind Date per Claudio Abbado è nato dalla coscienza dell’eredità etica e politica, in senso alto, del Maestro. Mi sembrava doveroso provare, nel mio piccolo, a trasmetterla. Dunque ho raccolto le sue parole e, senza ambizioni da critico musicale colto, ho dato vita a una piccola orazione civile nella quale porgo quelle parole al pubblico così come sono state pronunciate, tenendole però con questo vive. Non recito, non impersono lui, trasmetto, appunto testimonio, le sue scelte, il suo rigore, le sue lezioni di vita. Tutto inframmezzato da brani di musica al buio, da qui “Blind Date”, per testimoniarne anche l’arte e magari spingere chi assiste al lavoro a scoprire o approfondire la musica colta e soprattutto a rendersi conto che la musica su disco è ben altra cosa dell’Mp3 e dell’ascoltarla su Ipod e computer. È vero che ci stiamo abituando a mangiare salami di legno e cose simili, però come lottiamo per un cibo vero e genuino occorre ribellarsi anche a questo andazzo per cui dischi e libri si possono sostituire con i portati della cosiddetta “evoluzione tecnologica”. No, un disco fisico ha un suono diverso, anzi ha il suono che il suo autore voleva avesse, addirittura gli LP suonano meglio dei CD. E si tratta sempre di oggetti che sono più che oggetti, vere e proprie testimonianze della nostra storia e della nostra cultura. Una playlist di mille brani sull’iPod non vale neanche lontanamente avere gli stessi brani su disco: con ben altro suono e con tutto il resto (dalle note alle scelte estetiche delle copertine) che i dischi regalano a livello storico e contenutistico. E devo dire che ascoltando la musica al buio, molti comprendono subito cosa sia davvero ascoltare un disco: faccenda che ai nostri ragazzini non è neppure fatta balenare, perché conviene più provare a vendergli la musica liquida. Ma quando i ragazzi sentono la differenza, non essendo stupidi, immediatamente la colgono. Ed è bello fargliela cogliere assieme all’eredità di un uomo libero e di vette etiche straordinarie quale è stato Claudio Abbado.


I LIBRI DI ANDREA PEDRINELLI