
Per una strana simmetria delle vocazioni fa il giornalista. Trascorre le notti a ricercare il caos nelle cose semplici e i giorni a rendere semplice il caos. Penelope, insomma, della scrittura, sfila e rifila il brogliaccio. Ha scritto per “L’Unità”, “la Repubblica”, “Corriere della Sera”, “La Stampa”, “Diario della settimana”. Prima era a Radio città futura, poi a Radio Capital. E ora tenta la strada della scrittura.
Al centro delle vicende dei protagonisti dei racconti del tuo La gang dei senzamore c’è più o meno sempre il sesso, anche se vissuto in modo contorto, complicato. Qual è il senso di questa scelta?
Non mi sarebbe piaciuto scrivere di sesso, mi interessava invece raccontare un corto-circuito con il sesso: nelle mie intenzioni i personaggi del libro sono persone che hanno perso la cultura dell’eros e concepiscono il sesso in modo immediato, vivono un erotismo mediato dai mezzi di comunicazione. Una dimensione della sessualità sgradevole, nella quale la visione dei personaggi femminili è mutuata da modelli esterni. Nei miei racconti gli uomini cercano donne modellate su quelle della tv, e con loro usano persino il linguaggio della tv. C'è un po’ di questi personaggi, un po’ di queste ombre in tutti noi, e chi ha l’onestà di riconoscerlo sa apprezzare le storie che ho raccontato.
Lo sfondo delle avventure dei tuoi senzamore è una Roma che a sua volta è un personaggio vero e proprio...
All’inizio volevo scrivere storie in qualche modo noir, ma il modo di essere di Roma non me lo ha permesso. Roma vorrebbe essere un po’ Londra ma alla fine je viè da ride, è una città che nasce tragica e muore comica.
La forma del racconto breve ti è venuta spontanea o si è delineata man mano che le storie de La gang dei senzamore prendevano vita?
Ci sono storie che nascono come romanzi, che hanno il respiro e la voglia di essere romanzi. Queste storie invece sono nate brevi, volevo conservare al loro interno una certa incompiutezza perché incompiuti sono i personaggi che le vivono.
Leggendo i tuoi racconti non si può fare a meno di riconoscere qua e là questo o quel conoscente, di individuare comportamenti, tic comuni ad amici, compagni di scuola, etc. Ti sei ispirato a personaggi reali?
Certo che sì. Ci sono molti spunti presi dalla vita di miei amici, per esempio il racconto nel quale il protagonista incontra una ragazza che ha l’impressione di aver già incontrato e poi scopre che si tratta di una pornostar è ispirato ad un fatto identico successo ad un ragazzo che conosco...
Nel libro ricorre ossessivamente il termine “mazzapicchio” per definire il membro maschile. Una scelta che salta agli occhi, perché invece altri termini sessuali “forti” vengono usati senza problemi. Ci spieghi questa cosa?
Si tratta di un termine mutuato dall’opera di Pietro Aretino, indica in origine uno strumento di lavoro dei fabbri e per analogia il membro maschile. Il termine non è presente nemmeno nella famosa poesia del Belli, quindi mi intrigava, suggerisce un’immagine violenta e buffa al tempo stesso. In realtà all’inizio pensavo di intitolare il libro Mazzapicchi proprio per sottolineare la cosa, ma poi abbiamo fatto una scelta diversa con l’editore.