
Ayanta Barilli, attrice, giornalista e conduttrice di programmi televisivi e radiofonici di divulgazione culturale, finalista in Spagna al Premio Planeta 2018 con il suo primo libro, ci accoglie nella sua casa di famiglia romana per una presentazione molto speciale. Ci fa accomodare, e da subito è difficile trattenere un’emozione un po’ infantile mentre gli occhi vagano per la stanza. Sedere su quel divano, essere in quella stanza, intravedere i volti che affollano le pareti. Volti che sai che ad un certo punto appariranno nel libro, che in qualche modo ti sembra di conoscere già. È strano, surreale. Affascinante. In questo scenario l’autrice italo-spagnola si racconta, sempre sorridente e spigliata, tra vino rosso e jamon serrano, tra vecchie foto in bianco e nero, quadri e ricordi, rispondendo alle nostre curiosità sulla storia della sua famiglia e sulla sua scrittura.
Provieni da una famiglia di artisti. È un grande peso o una grande benedizione?
Diciamo che non è una maledizione né un peso, perché ho sempre avuto la sensazione di non avere altra possibilità. Non potevo decidere di non esserlo. Mi ha tirato su una nonna a cui interessavano solo gli artisti e quindi pensava che nessuno della sua famiglia avrebbe potuto fare una cosa diversa. Sono cresciuta circondata da libri, dal teatro, dalla danza, dalla musica e non ho visto altra possibilità, e devo dire che alla fine i miei interessi sono quelli, non mi sono mai interessata di cose che non facessero parte di ciò che avevo vissuto sin da piccola. Come giornalista ho sempre fatto cultura, non ho mai voluto fare politica, sport o cose di questa natura, mi sono sempre legata al fatto culturale. In realtà per me il giornalismo è una scusa per poter leggere, per poter andare a teatro, per poter viaggiare. Non è il giornalismo in sé, quanto il contenuto, la possibilità che mi dà di stare in contatto con le cose che veramente mi emozionano.
Alla fine hai seguito l’esortazione di tuo padre: “scrivi, scrivi, scrivi”. Cosa è per te la scrittura? Quale è stato il tuo metodo nella stesura di Un mare viola scuro?
Chiedevo a mio padre, ma come si fa a fare questo, a scrivere, e non riuscivo a capire. Leggevo, rileggevo mille volte uno stesso libro che mi era piaciuto per capirne esattamente la struttura, quelle cose tecniche che poi alla fine magari non sono poi così importanti. E lui mi diceva sempre: “Guarda, è semplicissimo, siediti e scrivi”. E a me questa cosa faceva impazzire, perché mi sembrava un po’ una presa in giro. Ma in effetti mi sono seduta e ho scritto, ho lavorato come una matta e ho continuato, sono riuscita a trovare una struttura. Perché siccome avevo tutte queste voci di queste donne – il libro è diviso in tre parti, bisnonna, nonna e madre –, avevo tutte queste voci in testa, tutte le cose che avevo letto su di loro, scritte da loro stesse, avevo bisogno di creare una struttura in cui il presente e il passato si potessero mischiare e in cui tutte queste donne avessero l’opportunità di esprimersi. E quindi il libro è strutturato così. Sono tre donne che si raccontano a se stesse, raccontate dalla quarta donna della generazione, che sono io. Sicuramente la scrittura è un percorso terapeutico, senz’altro. Però poi c’è il secondo momento, cioè una volta scritto il libro farlo leggere alle persone direttamente implicate. E questo è stato un momento molto complicato per me, perché io l’ho scritto con molto amore. C’è questo libro di Delphine de Vigan, Niente si oppone alla notte. È un libro anche autobiografico e uno dei suoi capitoli inizia dicendo che il miglior modo per arrabbiarsi con la famiglia, per non rivolgersi mai più la parola è scrivere un libro sulla famiglia. Perché comunque stai risucchiando l’animo di altre persone, che magari non ne hanno assolutamente voglia. Ho già superato la parte spagnola, adesso devo superare la parte italiana.
Ciò che ti ha spinto a scrivere è stata la volontà di far emergere la verità in mezzo alla finzione, alle menzogne. È paradossale che alla fine questa verità possa essere espressa appieno solo attraverso un’altra finzione, quella di un romanzo...
Ho semplicemente accettato questa cosa di famiglia. Quella di mettere comunque il racconto davanti alla realtà. Cioè: se il racconto è più efficace, racconterò una balla.
Come hai scelto il titolo del libro? Cos’è questo “mare viola scuro”?
Ad un certo punto ho pensato se chiamare il libro Sequenze familiari, come quello della nonna. Il titolo è stato un problema. Io volevo chiamarlo Ciao ni’. Sono cresciuta a Roma e fu l’ultima cosa che mia madre mi disse in ospedale prima di morire. Ma in spagnolo era intraducibile. E quindi alla fine il titolo viene da Tellaro, un paesino in Liguria, un posto che sentimentalmente ed emotivamente ha molta importanza per me, che ha questo mare viola scuro. Ha le rocce nere, sotto. È un mare che quando diventa cattivo ha onde tremende. Mia nonna molto spesso usava la figura del diavolo, nelle sue espressioni, nei suoi racconti, nel suo amore per la danza classica. Ci sono sempre questi esseri infernali, nel Lago dei Cigni, in Giselle, nelle Silfidi. E quando c’era il mare mosso a Tellaro lei diceva sempre “non fare il bagno, che oggi arriva il diavolo in carrozza”. E io da piccola non capivo e immaginavo questo diavolo in una grande carrozza, il manto rosso, trascinato da due tonni, che veniva fuori dagli abissi del mare. Cattivo, però bellissimo. Io ho passato ore lì a Tellaro sulla riva per vedere se sarebbe arrivato.
Ogni famiglia ha i suoi non detti, le sue menzogne, le sue verità edulcorate. Tu parli di “ereditaria paura della verità”, “paura di sapere”. Pensi sia qualcosa di particolarmente forte nella mentalità italiana o qualcosa di pressoché universale? Perché si tende a voler dimenticare certe cose invece di tramandarne la memoria? Per paura di cosa?
Penso sia universale, o per lo meno occidentale. Non so in Oriente cosa succede in questo senso, però sicuramente io l’ho trovata sia in Italia che in Spagna. Credo che abbiamo difficoltà a parlare delle cose che fanno male, vogliamo sempre proteggere le persone più piccole o più fragili della famiglia. Ma credo che facendo in questo modo sbagliamo. Perché ci sono mille maniere di raccontare una cosa senza essere aggressivi. Credo che si possa parlare di tutto, che si debba parlare di tutto. C’è questo filosofo indiano, Krishnamurti, che dice “fai ciò che temi e il timore scomparirà”. Si tratta esattamente di questo.
Nel romanzo hai inserito le lettere di Elvira, il romanzo di Angela, i diari di Caterina e lo scambio epistolare con tuo padre. Che tipo di lavoro c’è stato dietro questo mosaico di voci? Quanto ci è voluto per ultimare il libro?
Diciamo che ci ho messo sei anni a scriverlo. A pensarci, una vita intera. La raccolta è una cosa che ho iniziato a fare da quando è morta mia nonna, io avevo trent’anni e adesso ne ho cinquanta. Lì ho iniziato a racimolare il materiale, ogni volta prendevo, chiedevo. E poi ho affrontato queste grandi scatole, in cui c’erano tutte queste lettere, i diari eccetera. Ad un certo punto ho svuotato la mia camera, ho steso dei grandi tappeti e ho messo tutto per terra, ordinandolo, in modo da capire cosa volevo usare e in che modo usarlo. Le lettere, ad esempio, hanno una qualità letteraria in sé, in fondo sono lettere scritte da due scrittori. E loro erano così coscienti di questo, che quelle lettere avessero del valore, che ne facevano copie! Le scrivevano a macchina con la carta carbone, le inviavano ma si tenevano una copia. E quindi io ho trovato i botta e risposta sia in quegli scatoloni disordinati che ho ricevuto dall’Italia ma anche nell’archivio di mio padre, che è già un archivio molto più ordinato. Questo è stato veramente un modo di conoscere intimamente questa storia d’amore che è veramente bella, una di quelle storie che meritano.