
Intervistare Barbara Stiegler è stata una vera esperienza perché si è posta subito in maniera propositiva ed entusiasta nei confronti di Mangialibri e dopo un giro di mail tra lei, me e il suo ufficio stampa italiano sono riuscita a imbastire una intervista che ha sorpreso e fatto riflettere moltissimo me per prima. Al di là di come la si pensi a riguardo di tutto quanto afferma la Stiegler, porsi domande legittime o interrogativi su quanto ci succede intorno dovrebbe essere una cosa connaturata in ogni essere umano. L’autrice del discusso saggio sulla crisi della democrazia in tempi di pandemia è una filosofa, una docente universitaria, una donna di grande cultura che cerca di spiegare e portare avanti un pensiero sociale che merita, quanto meno, una riflessione speculativa. Questa la sua intervista per Mangialibri. La foto è di Francesca Mantovani - Editions Gallimard.
Il tuo saggio La democrazia in pandemia è il risultato di interviste a molte persone diverse tra loro. Quale è stata la tua impressione riguardo al loro stato d’animo, alle loro paure, alle loro frustrazioni derivanti dai primi difficili mesi di COVID-19?
Sì, non ho scritto questo libro da sola, infatti, ma con un collettivo di caregiver, scrittori e ricercatori. Tutti i membri di questo collettivo hanno condiviso con me due stati d’animo fondamentali: paura e rabbia. La paura di cadere in un nuovo tipo di regime: autoritario e oscurantista, in cui la verità “scientifica” poteva essere decretata da un Presidente della Repubblica inesperto, ignorante di medicina e sanità pubblica, e che era autorizzato dalle autorità a imporre le sue opinioni a tutti i cittadini attraverso la repressione. Tra queste persone c’erano caregiver, esposti quotidianamente a COVID-19 e vaccini. È stata questa paura del potere, molto più della paura del virus o della paura dei no vax, che noi abbiamo vissuto sulla nostra pelle. Paura, ma anche rabbia di fronte a tutti coloro che hanno giustificato questo passaggio, o che vi hanno addirittura partecipato con entusiasmo e consapevolezza, in nome dell’emergenza sanitaria, della crisi economica o della salute della collettività. Si potrebbe riflettere su quanto questi due effetti – paura e rabbia – siano profondamente negativi, ma questa è una cosa che di questi tempi è molto disapprovata. Ci si aspetta sempre di essere positivi, ottimisti e premurosi. La rabbia è condannata come una passione triste, accusata di renderci irrazionali. La realtà è molto più complessa. In questo libro abbiamo cercato di mostrare che il governo francese ha costantemente giocato sulla paura della pandemia usandola contro la rabbia sociale e politica che era già molto profonda prima dell’epidemia. Abbiamo anche cercato di mostrare che questa rabbia, la nostra, non va uccisa o repressa, ma trasformata, perché ci possa servire per pensare e per riallacciarci alla “critica”, che è uno dei compiti dell’università.
Tu definisci il termine “pandemia” in un modo particolare, mettendolo in relazione più con un’area geografica. Vorresti spiegare meglio ai lettori che cosa intendi?
Per risponderti devo spiegarti il titolo del libro. 150 anni fa, Alexis de Tocqueville scrisse Sulla democrazia in America, un’opera che ha regnato nelle menti dei nostri leader fino a poco tempo fa. Come Tocqueville, molti pensavano che la democrazia fosse tutta una questione di aumento continuo dei diritti individuali, e molti credevano che questa tendenza fosse il significato stesso della storia. È stata questa idea che ha trionfato negli anni Novanta del Novecento: la convinzione che il mercato e la democrazia avrebbero vinto ovunque e che questa sarebbe stata la “fine della storia”. Ma a cavallo degli anni 2000, ci siamo spostati in un continente mentale completamente diverso, ora dominato dalla Cina, dove si tratta, al contrario, di sospendere la democrazia in nome dell’urgenza e del moltiplicarsi delle crisi. “Pandemia” caratterizza molto bene questo continente mentale. Il termine agisce sull’immaginazione. Trasforma il COVID-19, che è una malattia potenzialmente fatale per organismi indeboliti o già malati, in un patogeno che minaccia in egual modo tutti i soggetti, e che giustificherebbe il blocco di tutte le attività vitali della società, proprio come se fossimo in guerra con un nemico. In una “pandemia”, invece di occuparsi dei soggetti a rischio e garantire i diritti fondamentali di tutti i cittadini, si comincia a monitorare e punire l’intera popolazione fin nei minimi dettagli della vita quotidiana, e gli ammalati vengono abbandonati alla loro triste sorte, ordinando loro di restare a casa. È il modello cinese che trionfa, ma senza che un medico venga a visitare i pazienti a casa e li curi, come sembra essere stato il caso in Cina, almeno in alcune zone geografiche.
Perché pensi, e lo scrivi nel tuo saggio, che i leader politici siano andati nel panico totale in tutto il mondo nonostante la maggior parte degli Stati industrializzati abbia, da sempre, un piano specifico per le epidemie e protocolli ospedalieri per le emergenze?< br/> Questa è un’ottima domanda. Per il capitalismo globale, questo virus era una pessima notizia e i leader hanno iniziato a negarne l’esistenza. Fino a quando non si è caduti nel panico. Ma una volta riconosciuta l’emergenza, tutte le lezioni del passato - accumulate attraverso l’esperienza delle crisi sanitarie e della sanità pubblica - sono state dimenticate. È iniziata un’amnesia immensa, come se stessimo vivendo un anno zero. Anche questo si spiega con la natura di una nuova forma di potere. In Francia, il potere autoritario neoliberista che ha trionfato dagli anni 2000 rifiuta assolutamente di fidarsi dell’esperienza accumulata dalle istituzioni pubbliche. Tutte le principali istituzioni che lavorano con ricercatori e accademici in materia di epidemiologia e salute pubblica sono state sistematicamente messe da parte a favore di società di consulenza private (McKinsey & Company), consulenti di gestione del rischio o di marketing (ad esempio la BVA Nudge Unit, che ha fabbricato tecniche di incentivazione basate sulle neuroscienze). I comitati “scientifici” sono stati creati frettolosamente dallo stesso Presidente Macron per scavalcare tutti gli esperti solitamente mobilitati per questo tipo di crisi. Ma non appena questi comitati iniziavano a dire qualcosa di diverso da ciò che il governo voleva sentire, venivano disprezzati o aggirati. La ragione di fondo di questa grande disfunzione deriva dal fatto che questo nuovo liberalismo autoritario vuole distruggere le istituzioni comuni della Repubblica insieme alla conoscenza critica prodotta dall’Università e dai movimenti di mobilitazione dei cittadini. La crisi sanitaria quindi è vista come un’opportunità per dispiegare una propria agenda: smantellare i servizi pubblici, imporre la digitalizzazione ovunque, sospendere la democrazia e adattare l’intera vita sociale alle innovazioni del capitalismo finanziarizzato. Pertanto sembra ovvio che per loro nessuna competenza, per quanto scientifica, dovrebbe ostacolare l’attuazione di questa agenda.
In caso di pandemia, occorre prestare attenzione anche a un determinato linguaggio e a una terminologia appropriata. Perché ritieni che questo non sia successo negli ultimi due anni? Per paura di esporsi troppo o semplicemente per superficialità?
Abbiamo iniziato ad usare un nuovo lessico come se niente fosse: “da remoto”, “in presenza” e così via. Viktor Klemperer, che ha vissuto il nazismo e ha vissuto nella DDR, ha mostrato come questi piccoli cambiamenti nella nostra lingua potrebbero portarci alla sottomissione a un nuovo ordine politico. La nostra Università e i nostri scrittori avrebbero dovuto fare questo lavoro di “resistenza”. Invece sono rimasti quasi tutti muti. O per autocensura o per contaminazione esterna. Ma anche perché sono stati massicciamente censurati dai media mainstream. Ogni critica alle misure anti-COVID è stata sistematicamente presentata come “cospirativa”, e lo è ancora mentre vi parlo, vietando di fatto ogni forma di critica.
Quando la pandemia di COVID-19 sarà passata, come si dovrà intendere la democrazia nella società di oggi?
Storicamente, la democrazia è un esperimento che risale all’Atene classica, quella del V secolo avanti Cristo. Ma è anche un’idea, un progetto futuro, che è tornato tra noi durante l’Illuminismo e le sue grandi rivoluzioni (soprattutto americane e francesi). Tuttavia, i suoi paradigmi contemporanei dominanti, che cominciarono ad emergere nel XIX secolo, sono in realtà molto lontani dall’idea democratica stessa. Ciò che chiamiamo “le nostre democrazie” corrisponde piuttosto al regime aristocratico del “governo rappresentativo”: un sistema in cui i funzionari eletti dovrebbero essere più competenti della massa, ritenuta incompetente, dei cittadini. Tuttavia, questo modello, il nostro, è ormai allo stremo. I leader aderiscono sempre più a un modello chiaramente autoritario, quello della “pandemia” o della “crisi”, mentre, nella società, molti cittadini aspirano ad un vero rinnovamento democratico. Per me, quindi, dobbiamo studiare l’idea democratica con il massimo rigore possibile, facendo la storia e cercando di attuarla ovunque ci troviamo: a scuola, all’università, in ospedale, in tutti i nostri luoghi di lavoro, nelle nostre città e paesi. Al momento non sto valutando nessun’altra via. Dopo la pandemia, o meglio mentre la pandemia continua e prende piede, dobbiamo riprendere con urgenza, ad esempio, la riflessione su quella forma che i francesi hanno chiamato dopo la crisi dell’AIDS “democrazia sanitaria”.
Pensi che tornerai anche in un prossimo futuro sugli argomenti che tratti nella tua ultima opera letteraria, magari con un nuovo saggio? Stai già lavorando a qualcosa?
Sì, sto preparando un libro proprio sul tema della democrazia sanitaria e, più in generale, sul governo democratico della vita e dei vivi. Stavo lavorando a questo libro da una decina d’anni, e l’emergenza sanitaria è arrivata, a dimostrazione dell’urgenza di questo tema. Spero che questo libro uscirà tra due o tre anni. Ma non voglio affrettarmi troppo: devo prendermi del tempo per conoscere meglio l’ospedale e i pazienti, per capire meglio anche la diversità delle malattie e la loro storia sociale e politica (AIDS, diabete, cancro in particolare), che suppone un tempo incomprimibile di ricerca e indagine.