
Impegnato nelle riprese di un nuovo progetto, Carlo G. Gabardini risponde volentieri alle domande di Mangialibri. È scrittore, drammaturgo, attore e speaker radiofonico, sempre indaffarato, ma con un sorriso disarmante.
Leggendo il tuo Una storia comune si evince che ami: matite, penne e quaderni per fare il tuo lavoro. Quanto è importante per te fissare su carta e scrivere a mano? Può essere considerato questo un lavoro di alto artigianato? Poi ci dici in quale hangar riponi tutto quanto!
Amo scrivere e sono molto poco schizzinoso sui mezzi per farlo: biro, matita, sono uno scrittore di diari adolescenziali ancora adesso ma lo faccio dal 1988. Carta, pc, sms, quadernetti volanti, stampato, su schermo, whatsapp, ma anche altre app valgono (incluso Ruzzle), colleziono macchine per scrivere che uso pochissimo ma in compenso trasloco spessissimo, ho montagne di blocchetti strapieni di appunti che sembravano geniali e ora mica tanto. Poi personalmente amo molto la carta, tenere in mano ciò che ho scritto, scrivere a mano mi aiuta a memorizzare e riorganizzare; ma ormai si scrive a mano anche su tablet. L’artigianalità del lavoro è nella fatica, nella continua modifica, anche nel lavoro in team, non sono i mezzi a definirlo. Il montaggio è certamente un lavoro da artigiano specializzato, eppure oggi ha a che fare solo con macchine.
Il contenuto di un romanzo e quello di un prodotto televisivo hanno tempi di fruizione diversi, tu come ti regoli quando li scrivi? Come riesci a mantenere il tuo stile narrativo sempre limpido, chiaro e, per chi legge, sincero?
Certamente qualsiasi prodotto è pensato e costruito pensando alla sua fruizione. Non tanto ai tempi, quanto più ai modi. Romanzo e serie televisiva, a pensarci, possono avere tempi di fruizione incredibilmente simili: un’ora al giorno, verso sera. E rispondo così perché ho spesso la sensazione che quel tipo di narrazione a cui assolvono i romanzieri si stia in parte spostando sul piccolo schermo, nelle miniserie, ma anche in certi prodotti più lunghi e complessi. Lo stile muta a seconda del mezzo; la sincerità – detto fra noi – non è richiesta.
Scrivere la docuserie SanPa ha richiesto una preparazione molto lunga, ricerche, visione e selezione dei materiali, testimonianze dei protagonisti. Quanto è importante per te lo studio preparatorio per ogni tuo lavoro?
Moltissimo, ma soprattutto è una parte che amo particolarmente: quando ancora non sai, quando puoi fingerti un po’ principiante, quando devi registrare tutto ciò che ti accade, perché restituire anche questo sarà parte del compito.
Che impatto emotivo ha avuto per te incontrare i testimoni che hanno vissuto San Patrignano in prima persona?
Mi viene da dire: un impatto così imponente e deflagrante, che dopo due anni e mezzo di lavoro sulla docuserie SanPa e il suo rilascio su Netflix, ho sentito la necessità di scrivere e condividere in un libro i dubbi e le domande avuti e combattuti durante la lavorazione e nei mesi del ritorno di San Patrignano e dell’eroina sulla bocca di tutti.
Ci sono vite dimenticate o emarginate, come pure ci sono persone che si dimenticano di vivere. La necessità di esprimere i sentimenti liberamente: gioia, tristezza, pianto, amore quanto è grande per te?
Quella che tu chiami “La necessità di esprimere i sentimenti liberamente” è semplicemente umana, poi ognuno sceglie i propri modi. C’è un tabù sul mostrare certi sentimenti in pubblico, ci insegnano che non si fa, ma credo sia parecchio stupido e molto ridicolo.
Prendo in prestito un titolo di un tuo libro. Fossi in te io insisterei: vale solo per te o possiamo usarlo come sprone anche noi?
Potete, eccome, ci mancherebbe altro; ho un’amica che se lo è tatuato addosso commovendomi fino al pianto. È di mio padre, quella frase feticcio: dopo che mi bocciarono all’accademia di teatro e io andai a dirgli che se il teatro non mi voleva allora avrei studiato Legge come lui desiderava, fu mio padre a dirmi “Fossi in te io insisterei, perché abbandonare al primo ostacolo, alla prima bocciatura, non mi sembra saggio” e credo mi abbia salvato la vita e reso caparbio per sempre.
Concludo con una curiosità. Cena a casa tra amici: tu cucini, apparecchi o guardi beatamente chi lavora?
Temo il terzo! Sono quello lì, sul divano, che chiacchiera, tiene alto il morale della truppa per potersi dire che sta comunque facendo qualcosa per la collettività, e dice anche “Ma non si possono avere dei bicchieri più grandi?”.