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Intervista a Caterina Venturini

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Caterina è una scrittrice umbra, ma ha vissuto molti anni a Roma e anche in altre città italiane, svolgendo i più diversi lavori. Ha iniziato il suo cammino nel mondo dei libri con un romanzo che è stato salutato dalla critica come uno dei più interessanti debutti di questi ultimi anni. Ma non si è fermata là, naturalmente. Noi di Mangialibri l’abbiamo incontrata per voi.




Dopo la pubblicazione del tuo primo romanzo hai scritto per il cinema, co-sceneggiando il bellissimo film di Daniele Luchetti Anni felici. Come è stato passare da una scrittura intima e solitaria come quella di un romanzo, alla scrittura a più mani di una sceneggiatura?
La bellezza di lavorare per il cinema è proprio quest’alternanza tra momenti solitari e momenti collettivi. Quando scrivi un romanzo (ma anche un saggio lungo), a un certo punto ti alieni completamente e precipiti in una forma di angoscia ed esaltazione in cui non sai più bene cosa stai facendo, a quel punto cerchi di arrivare ad una prima versione da far leggere oppure già a metà lo dai a qualcuno, di solito una persona cara che ti conforti nell’andare avanti e magari pur dall’esterno ti dia anche dei consigli. Nel cinema quelle persone “care” (devono esserlo almeno un po’ in quel momento) sono il/la regista e altri sceneggiatori/trici se ce sono. E man mano che si va avanti, l’alternanza tra momento solitario e momento collettivo diventa talmente fluida che non sai più cosa hai scritto tu e cosa hanno scritto gli altri, anche se a parer mio, almeno inizialmente è importante lavorare per conto proprio. La scrittura è un atto sempre solitario. Nel caso di Anni felici, ho scritto una prima versione del soggetto basandomi su alcuni appunti di Daniele, poi lui lo ha letto e ci ha lavorato di nuovo sopra, e così per la sceneggiatura: scrivevo un blocco di scene io, uno Daniele, uno Rulli, uno Petraglia e poi li facevamo girare tra di noi e le modificavamo. Ma prima di tutto questo, prima di cominciare a scrivere, c’è un lungo periodo dedicato alla parola, alla conversazione, alla discussione del film. Ed è stato molto affascinante per me esprimere ad alta voce per settimane intere, quei dubbi che quando scrivo un romanzo, mi gravano in testa in una sorta di muto circolo vizioso mentre faccio, vivo e do attenzione ad altro.

Il tuo romanzo L’anno breve prende spunto da un’esperienza autobiografica. Quanto, l’idea di poter trasformare in racconto quello che stavi vivendo, ti ha aiutato a superare i momenti difficili che sicuramente avrai incontrato insegnando ai giovani pazienti di un ospedale?
Sì, c’è una parte di verità in questo. Louise Bourgeois diceva: “Puoi sopportare tutto se lo scrivi”, e mi rendevo conto già all’epoca che quegli appunti che fin da subito ho cominciato a prendere alla fine delle lezioni nella torre/ospedale dell’Anno breve, mi confortavano in qualche modo. Ma poi, non sarei sincera se non dicessi che c’è (sempre) un’altra questione in gioco, quando si comincia a scrivere un libro: una sorta di epifania, di riconoscimento tra te e quello che vuoi raccontare. È un vero e proprio incontro che accade in un attimo e a quel punto, tu vuoi ripeterlo. È come conoscere delle persone interessanti, che vuoi incontrare di nuovo e poi ancora e ancora e ti inventi ogni possibile strada per farlo. Ti ossessionano, non sai bene perché all’inizio e alla fine neppure. Magari te lo dice qualcun altro il perché, o come direbbe Andrea, uno dei ragazzi de L’anno breve: “Il perché cambia sempre. Conta solo il come”.

Ultimamente vivi parte della tua vita in America, com’è l’Italia vista da lì?
A volte mi dico che sto lontano dall’Italia solo per amarla e per sentirne quella nostalgia feroce che altrimenti non proverei. Quando sono a Los Angeles, vedo l’Italia come un bellissimo Paese in rovina che ha ricevuto troppi doni nei secoli e in questo momento non può che farli lentamente marcire come durante un banchetto che dura da troppo tempo. Vedo l’Italia come una cena da Trimalcione e poi mi dico che forse è stata sempre così, o almeno da duemila anni, e allora mi dico: probabilmente la sua identità è proprio quella di risplendere tra le rovine. Politicamente è devastata. Eppure durante il piccolo tour di presentazioni de L’anno breve che mi ha portato da Napoli a Milano, da Bologna ad Amelia in Umbria, dove sono nata, non ho potuto fare a meno di sentirmi totalmente irretita da un calore che non trovo da nessun’altra parte e che va al di là delle mie relazioni e delle mie antiche amicizie. Un giorno in tram a Milano c’erano tre impiegati appena usciti dal lavoro (due uomini e una donna) che parlavano di quanto fosse difficile vivere a Napoli, “ma la città in cui si vive peggio è di sicuro Palermo”, disse uno dei due uomini. E io che due giorni prima ero stata ospitata da una bella libreria di quartiere del Vomero, mi sarei alzata in piedi a dire: “Voi non vi rendete conto di quanto si viva bene a Napoli, nonostante tutto. Di quale e quanta energia ci sia, di quante persone stiano ancora per strada a chiacchierare, a lavorare, a vivere, a mangiare”, poi mi sono detta che forse a Napoli avrei visto la stessa scena riferita però a quanto si vive male a Milano, e ho provato un po’ di sconcerto per quel campanilismo vecchio di secoli che politicamente ha sempre indebolito l’Italia, e artisticamente l’ha sempre fatta prosperare. Sarà ancora e sempre così?


I LIBRI DI CATERINA VENTURINI