
È un comune amico, Ismail Sagiroğlu - giornalista turco da anni rifugiato in Italia - a sbrigare i convenevoli fra me e Cengiz Aktar, collegato dalla luce piena ed estiva dell’isola di Lero, nel Dodecaneso, proprio a poche miglia dalle rive del suo Paese che egli da anni osserva, analizza, studia e riconosce malato. Di una malattia grave, con radici storiche profonde, e che ha senz’altro qualcosa da dire anche sui sintomi del nostro presente.
Un tempo si parlava dell’Impero ottomano come “il malato d’Europa”, oggi con il tuo libro torni a parlare di “malessere” per la Turchia? Si tratta della lunga degenza della stessa malattia o sono due cose diverse?
Certamente, la dichiarazione dello zar Nicola I non è direttamente riferita agli antichi mali della Turchia. Lo zar di Russia stava descrivendo un Impero ingovernabile e in via di disintegrazione. Ma si può dire che dietro questa ingovernabilità, uno dei problemi fondamentali della geografia in questione potrebbe essere l’atteggiamento che spinge a “non condividere mai il potere”. Perché la borghesia non musulmana, che si era rafforzata nel corso del XIX secolo, chiedeva naturalmente l’uguaglianza politica. Sia il governo centrale che la maggioranza musulmana hanno sempre ignorato queste richieste e hanno sempre opposto resistenza all’uguaglianza, in altre parole, alla condivisione del potere. Alla fine, le formule che avrebbero permesso alle dinamiche di costruzione delle nazioni di esistere solo all’interno di una confederazione ottomana furono sempre escluse, le cose divennero ingestibili, le nazioni che potevano andarsene se ne andarono, altre furono annientate e l’Impero Ottomano crollò. In questo senso, sì, la stessa ossessione di “non condividere mai il potere” può essere alla base della malattia di quel periodo e della malattia di oggi.
Lo stacco fra Impero e Repubblica (nata nel 1923) ha consentito di non fare i conti con il passato, di segnare una cesura e non uno sviluppo organico e armonico. Questo crea fantasmi e incubi, come nel caso degli Armeni e della “maledizione” del genocidio. Esiste un inconscio storico collettivo denso di rimossi?
La società turca si trova in fondo a un tunnel temporale in termini di confronto e memoria. La mancanza di memoria di cui soffre e la concomitante fobia della memoria le impediscono di crescere, rafforzarsi e di normalizzarsi. Può oggi una politica con un deficit di diritto e giustizia, che ha in qualche modo distrutto circa tre milioni di cittadini, vicini e amici, corrispondenti a un quinto della popolazione dell’impero - nei trent’anni tra il 1894 e il 1924 –, che non è mai stata chiamata a rispondere di questi atti, ma al contrario si è mobilitata per dimenticare e far dimenticare queste nefandezze, può un’entità politica del genere oggi concludere un contratto sociale solido e sostenibile?
Con l’impianto della nazione monista turca nel 1923 possiamo dire che c’è un processo di colonizzazione culturale dell’Anatolia, condotto sulla base del positivismo e del suo principale frutto politico, il nazionalismo? Voi, partendo da Petrarca e da Tommaso D’Aquino mostrate come in realtà il pensiero unico occidentale nasca da più dietro, dal rifiuto umanistico per la cultura arabo-islamica? In questo modo la Turchia rappresenta una sconfitta dell’immaginario, un’arresa al pensiero unico dell’Occidente dominatore. Possiamo dire che questo nazionalismo nega alla radice ciò che aveva fatto grande l’Impero ottomano: ovvero l’acquisizione della cultura dell’altro, l’apertura alla conoscenza senza etichette etniche?
Lo Stato-nazione istituito dagli unionisti e poi dai kemalisti poggiava su una politica che negava completamente la ricca e variegata tradizione ottomana, e poteva esistere solo nella misura in cui negava questa tradizione. In questo senso, il concetto e la pratica occidentale di “nazione” e di costruzione di una nazione hanno rappresentato una colossale sconfitta esistenziale e dell’immaginario per l’Impero Ottomano cosmopolita, multireligioso, multilingue e multietnico. Questa sconfitta è anche una degenerazione culturale. L’Islam ottomano, che aveva interiorizzato gli insegnamenti dei teosofi dell’età d’oro dell’Islam come Ibn Arabî e Ibn Rushd (Averroè), e che era aperto non solo al mondo esterno ma anche alle altre religioni monoteiste, ha perso la sua identità attraverso l’occidentalizzazione e la nazionalizzazione. Oggi, nella regione non esiste un altro Paese così monista, monotematico, monolingue, monotono e arido come la Turchia. Una politica così costruita sulle paure deve essere necessariamente chiusa, non aperta al mondo esterno, in modo da poter preservare il più possibile la sua unità artificiale, la sua nazione artificiale. Tuttavia, questa nazione non è qualcosa che si può creare con la forza. Le diverse identità/ricchezze che sono state distrutte, ritenute inesistenti, allontanate, un giorno torneranno.
Per secoli il turco ha rappresentato “l’altro” dell’Europa. Prima minaccioso e terribile, alle porte di Vienna; poi docile e da colonizzare, appunto il malato d’Europa. Dopo un secolo di riavvicinamento oggi i rapporti fra Turchia ed Europa e fra Turchia e mondo occidentale in generale sono molto complessi. Crede che sia possibile un “salto di campo” radicale come avvenuto per l’Iran nel 1979?
Non è del tutto impossibile. Sebbene i contesti politici e storici dei due Paesi siano molto diversi, entrambi sono soggetti a politiche tiranniche e antidemocratiche. Tuttavia, c’è una differenza importante: il regime di Teheran è esaurito, in tutti i sensi, mentre quello di Ankara è ancora in fase di consolidamento. Allo stesso modo, l’imposizione islamica in Turchia è molto indietro rispetto a quella iraniana. Ciononostante, Erdoğan e il regime stanno apertamente e palesemente perseguendo una totale islamizzazione della società e una parallela de-occidentalizzazione con la trasformazione della Presidenza degli Affari Religiosi in una somma autorità religiosa che emette fatwa, l’espansione dei licei a indirizzo religioso in tutto il Paese, il progetto di rimuovere il principio di laicità dalla Costituzione, il progetto di modificare il Codice Civile in senso islamico conservatore.
In Europa si tende a credere che i problemi, il malessere, della Turchia siano tutti riconducibili ad Erdogan? È così? In che misura Erdogan è un “prodotto naturale” del sistema “artificiale” Turchia come si è costituito nel corso della sua Storia?
È proprio questo l’equivoco di fondo di molti accademici, giornalisti e politici che lavorano, osservano e pensano alla Turchia: dare la colpa dei problemi della Turchia solo a Erdoğan.
Tuttavia, per coloro che ripetono a pappagallo il concetto di “governo di un solo uomo” per descrivere il mostro turco, le elezioni hanno dimostrato ancora una volta che la realtà è un “governo di molti uomini” che pensa come un uomo solo! Questa configurazione ideologica indica una formazione totalitaria. In effetti, molti osservatori della Turchia non sono riusciti a dare un senso alla scelta dell’elettorato che, nonostante le enormi difficoltà economiche e la gestione disastrosa del terremoto di inizio febbraio, ha comunque votato obbedientemente per il regime e per Erdoğan. L’ipotesi di base degli osservatori turchi era che anni di impoverimento, edifici crollati come castelli di carte durante il terremoto e la mancanza di un’adeguata assistenza pubblica dopo il sisma avrebbero indotto gli elettori ad abbandonare il regime. In questo contesto, il quadro emerso dopo le elezioni va ben oltre le classiche polarizzazioni destra-sinistra, conservatori-progressisti, religiosi-secolari. Infatti, la polarizzazione può avvenire su un terreno democratico comune dove le differenze, le divergenze e i conflitti, anche violenti, coesistono e vengono risolti senza provocare rotture. In Turchia, invece, l’interazione sociopolitica tra la maggioranza antidemocratica e il resto del Paese è impossibile e spesso mortale. Per quanto riguarda la collocazione storica di Erdoğan, la sua figura politica è il prodotto perfetto del tropismo antidemocratico della Turchia. D’altra parte, sebbene il regime totalitario in Turchia sia caratterizzato da un chiarissimo sostegno di massa, Erdoğan è senza dubbio il leader che ha scatenato e maturato questo desiderio di massa per il fascismo.
Possiamo dire che nella storia recente gli anni chiave sono il 2002, quando un sommerso politico torna sulla scena aprendo una fase di democratizzazione e il 2013 quando con Gezi Park quel processo si arresta e torna indietro violentemente?
Assolutamente sì! Nel 2002, l’AKP ha avuto il coraggio di continuare e approfondire le riforme di ampia portata avviate dal precedente governo di coalizione. Tutte queste riforme sono state fondamentali per aprire la strada alla società turca. Questo processo è durato un decennio, con alti e bassi, e per molte ragioni diverse, che discuto nel libro, l’AKP non è stato in grado di sostenere la democratizzazione e ha gettato la spugna. Non appena ha gettato la spugna, ha iniziato a regredire nella direzione completamente opposta e a far regredire il Paese. La data di riferimento è il 2013. Dopo la rivolta di Gezi nel maggio di quell’anno, il rovesciamento di Morsi in Egitto a luglio e lo scandalo di corruzione del 17 dicembre, Erdoğan era così spaventato da diventare un mostro.
Quali sono i tratti distintivi del potere AKP post-2013? Quanto cruciale il sostegno delle masse? E come possiamo spiegare l’incapacità e l’inettitudine dell’opposizione?
Dopo il 2013, il governo si è rapidamente trasformato in un regime e, con le prime elezioni fraudolente del 2015, il tentato colpo di Stato del 2016, il referendum sul cambiamento al sistema presidenziale del 2017 e le elezioni presidenziali del 2018, ha preso completamente la Turchia sotto il suo controllo in pochi anni. Nel farlo, né l’opposizione, né la società, né le istituzioni sono state in grado di tenergli testa. Questo dimostra quanto sia debole, priva di basi e di memoria la politica del Paese. Queste debolezze possono essere ricondotte a un secolo di politica priva di Stato, di diritto e giustizia. Per quanto riguarda l’opposizione, ad eccezione del Movimento politico curdo, l’opposizione è statalista, nazionalista e localista. In ultima analisi, non contraddice mai il governo nella sostanza.
Infine, le chiederei uno sguardo sull’Italia. Italia e Turchia hanno condiviso nel secondo ‘900 diverse caratteristiche in virtù della politica dei due blocchi, sovietico e occidentale. Oggi come vede l’Italia? Malata anch’essa?
Anche se non è mia abitudine esprimere opinioni su un paese che non conosco bene, vorrei condividere un’osservazione che ho letto sull’Italia e su altri Paesi dove l’estrema destra trova facilmente sostenitori. È più una domanda che un’osservazione: in alcuni Paesi dell’Europa centrale i tropismi “locali e nazionali” sono ancora molto forti e sono comuni i riflessi difensivi e di risentimento nei confronti degli stranieri. L’incapacità di questi Paesi di fare i conti con ciò che hanno inflitto ai loro cittadini ebrei durante l’Olocausto, anche se come risultato dell’egemonia nazista, non ostacola forse il loro futuro democratico? È possibile che i partiti e la retorica antidemocratica e xenofoba dell’Ungheria, della Polonia o dell’ex Germania dell’Est, ad esempio, siano legati alla loro incapacità di fare i conti con questo passato oscuro? Queste domande valgono anche per chi, nella parte occidentale del continente, non ha mai fatto i conti con il proprio passato tirannico, sia nei territori occupati, sia nelle colonie, sia nelle proprie terre. In questo contesto, l’incapacità dell’Italia di fare pienamente i conti con il suo passato fascista non spiega forse le deviazioni di oggi?