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Intervista a Charlotte Link

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A vederla, Charlotte Link è una bella donna dallo sguardo dolce e penetrante. Eppure Lady Bestseller ‒ come l’ha ribattezzata qualcuno ‒ è la regina incontrastata dello psicothriller e da tempo, scrivendo una media di un libro l’anno, ci regala storie appassionanti e inquietanti senza indulgere mai al raccapricciante o all’eccesso, anzi arricchendole di un particolare ed apprezzato tocco femminile. Tuttavia i suoi romanzi ti catturano fin dalla prima pagina e non ti mollano fino alla fine. Abbiamo provato a scoprire il suo segreto.




Hai scritto e pubblicato il tuo primo romanzo all’età di diciannove anni: è incredibile! Come hai fatto? Puoi raccontarci come è successo?
Anzitutto vorrei dire che non mi è sembrata una cosa così incredibile. Sono sempre stata una lettrice vorace, fin da bambina. I libri per me erano la cosa più bella al mondo. E quando avevo quindici-sedici anni ho pensato che sarebbe stato divertente mettermi dall’altra parte, non da quella di chi i libri li legge, ma da quella di chi li scrive. Non sapevo se mi sarebbe piaciuto, né se avrei mantenuto il mio proposito, ma mi ci sono buttata senza difficoltà. E mi sono appassionata alla scrittura al punto che non volevo più smettere… Così è nato il mio primo libro, un romanzo storico sull’Inghilterra del sedicesimo secolo. L’ho battuto interamente sulla mia macchina da scrivere (allora non c’era il personal computer e io non avevo una macchina da scrivere elettrica).Una volta finito, spedii le 800 pagine del mio romanzo a una famosa casa editrice e mi convinsi che me le avrebbero rimandate indietro… Invece dopo una sola settimana mi arrivò la risposta: avevano accettato di pubblicare il mio libro!

Hai scritto romanzi storici e thriller, ottenendo grande successo in entrambi i casi: qual è il genere in cui ti senti più a tuo agio?
C’è un tempo per ogni cosa… All’inizio mi piaceva scrivere romanzi storici perché ho sempre nutrito una grande passione per la Storia e mi piaceva tuffarmi in epoche passate. Ma a un certo punto ho incominciato a desiderare qualcosa di nuovo. E poiché da sempre sono una lettrice appassionata di thriller ho deciso di cimentarmi con questo genere. Ed è quello che a tutt’oggi mi dà maggiori soddisfazioni.

Trame ad alto tasso di adrenalina e sensibilità femminile sono un po’ la cifra distintiva di Charlotte Link: hai sempre curato con la massima attenzione i meccanismi psicologici e gli stati emotivi dei tuoi personaggi femminili: in questo risiede il segreto del tuo successo?
Trovo sempre più difficile decifrare e valutare il segreto del proprio successo. Posso solo riflettere su ciò che i lettori mi scrivono nelle lettere che quotidianamente ricevo. Le frasi più ricorrenti sono: «Non riuscivo a smettere di leggere» oppure «Sono andato avanti a leggere tutta la notte anche se il giorno dopo dovevo andare a lavorare». E un’altra cosa che leggo spesso è che molti si identificano con i miei personaggi. Che provano gli stessi sentimenti, le stesse paure, le stesse preoccupazioni e gli stessi coinvolgimenti emotivi. Fra l’altro mi scrivono uomini e donne indistintamente. Per me è estremamente importante trovarmi di fronte a reazioni e risposte psicologiche differenti.

Quale è la scelta decisiva? Ovvero: in questo momento in cui abbiamo paura di tutto, è giusto non sopprimere con la ragione l’impulso di tendere una mano a qualcuno in difficoltà, col rischio di ritrovarsi nei guai, anche se magari non proprio della natura di quelli che capitano a Simon, il protagonista del tuo romanzo La scelta decisiva?
Grazie per questa domanda. Io ribalterei la cosa, cioè è giusto aiutare gli altri anche se corriamo dei rischi? Non è possibile, direi, circolare per il mondo ad occhi chiusi e non voler guardare quando gli altri stanno male. Tuttavia a volte capita che aiutare gli altri sia come aprire una finestra, tu la apri e ti arriva dentro molto più di quanto avresti voluto. Che poi è un po’ quello che capita a Simon. Tuttavia è necessario aiutare gli altri. È vero però che mentre lo fai puoi, a volte, gestire questa cosa, frenare gli eventi mentre questi si accalcano su di te. Cosa che lui non riesce a fare.

A proposito. Simon sembra avere una connotazione negativa all’inizio della storia: è un debole, si fa manipolare per il desiderio di compiacere tutti, è vittima di una figura paterna ingombrante. Eppure è lui la figura più positiva, quello che rischia in prima persona e ciò che ha di più caro, magari non proprio consciamente, pur di aiutare una ragazza in difficoltà. E di fatto è colui che dà origine a tutto. La storia è anche una forma di riscatto per lui?
Simon è una figura estremamente positiva, è la più positiva di tutte perché è anche quella che compie l’evoluzione più forte, più radicale. Non nasce come eroe, però riesce ad esserlo perché deve, perché si trova nella situazione in cui non può fare altro. Deve combattere e deve stare al fianco di Nathalie. Non può tirarsi indietro, non può cedere alla propria debolezza e ai propri difetti. Ed è proprio questo che gli dà tutta la forza necessaria per ritrovare fiducia nelle proprie capacità e in se stesso, e quindi così modificare quella situazione di sottomissione rispetto a suo padre e alla sua ex moglie.

Si accenna diverse volte nel romanzo all’atmosfera tesa del post attentati a Parigi del novembre 2015. Che ruolo ha, se ce l’ha, questo particolare nel clima della storia?
L’atmosfera che regnava dopo gli attentati era veramente tesa e opprimente. Quella che introduco nella storia non ha legami diretti con l’andamento degli eventi ma serve ad acuire questa sensazione di minaccia perenne. Io mi trovavo in Francia al momento degli attentati e ho avuto modo di percepire con molta forza e molta chiarezza questa reazione della gente. Ho percepito subito questa aria che era diventata all’improvviso opprimente, questo nervosismo perenne e serpeggiante. Quindi c’è questa atmosfera di nervosismo e paura in cui tutti i personaggi si muovono, ed è proprio quella che dominava in Francia in quel momento.

Per scrivere questo romanzo hai dovuto documentarti su questa orribile tratta di “materiale umano”, immagino. Ma è tutto così terribilmente reale?
La situazione è veramente drammatica per tutte le persone coinvolte in questo genere di tratta, un po’ come accade nel mio libro a Selina e Ninka. Ma ovviamente non sono casi tutti uguali, perché ci sono anche quelle ragazze che son andate effettivamente ad ovest e sono riuscite a far carriera come modelle. Non è il caso di tutte le ragazze che accettano questo tipo di cosa, però quasi tutte sanno che c’è il rischio di prostituzione ma quella che si presenta, in fondo, è l’unica possibilità che loro hanno per cambiare vita. E dunque la colgono pur essendo coscienti dei rischi che corrono. Io stessa ho avuto modo di venire a conoscere la storia di due ragazze che sono state coinvolte in questo tipo di commercio senza che però ne avessero una reale coscienza. Dietro questo commercio – è questo il tema che io tratto – ci sono vere e proprie organizzazioni molto ramificate che coinvolgono tante donne dei paesi dell’est.

Nei tuoi romanzi il lettore si trova sempre inesorabilmente coinvolto, incollato alle pagine fino alla fine. Sempre, ogni volta. Quale è il segreto di una scrittura così avvincente?
È molto difficile parlare di sé così come osservare in maniera obiettiva e analizzare obiettivamente la propria scrittura. Però posso dire che il mio unico obiettivo è quello di raccontare. Non ho come obiettivo la grande letteratura fatta di frasi complesse e di pensieri difficili da comprendere. A me piace che il lettore rimanga attaccato alle pagine dei miei libri e l’unica cosa che desidero è che si realizzi questa identificazione.

L’idea per i tuoi romanzi ti viene sempre nello stesso modo? Hai elaborato un tuo «metodo creativo» oppure ogni volta è diverso? In particolare, come è nata la storia di L’ultima volta che l’ho vista?
Più che mettermi io alla ricerca di un tema, di un soggetto, bisogna che ci sia – diciamo – un incontro fra me e l’idea per un nuovo libro. E di solito succede nel momento in cui meno me l’aspetto. Afferro un brandello di una conversazione che mi interessa, scorgo un volto nella folla con un’espressione particolare, vengo colpita da come due uomini parlano fra loro gesticolando… e di colpo mi viene in mente una storia che sta dietro a quella conversazione, a quel volto a quella discussione. A volte la storia finisce lì. Ma a volte incomincia ad ossessionarmi, non me la tolgo dalla mente per settimane, e allora capisco: devo mettermi al lavoro su un nuovo libro. Per L’ultima volta che l’ho vista mi sono ispirata a un‘esperienza personale. Il libro inizia con il rapimento di una donna che stava aspettando il marito in un parcheggio deserto. Lei scompare senza lasciare traccia, il marito la cerca disperatamente per anni senza trovarla e senza poter ricominciare una nuova vita. Ecco, questa storia mi è venuta in mente quando quattro anni fa, mio marito, mia figlia che allora aveva otto anni e io, eravamo di ritorno dalle vacanze estive nel Sud della Francia. Era un giorno caldissimo, eravamo perennemente in coda lungo la strada. Eravamo tutti molto stressati. Poco dopo il confine con la Germania decidemmo di fare una sosta per far fare un giretto al nostro cane. Mia figlia si rifiutò di venire con noi e rimase sul prato accanto all’auto. Mio marito e io ci avviammo, ma immediatamente ci rendemmo conto di quale rischio stavamo correndo. La macchina era parcheggiata in una piazzola deserta vicino all’autostrada. Nostra figlia sarebbe rimasta lì tutta sola: non ci voleva niente che nel momento sbagliato comparisse l’uomo sbagliato e la portasse via. Ho fatto dietrofront e mi sono precipitata alla macchina. Ovviamente non era successo nulla, ma nella mia mente incominciava a ronzare un pensiero fisso. «Che cosa potrebbe succedere se…» E così è nato L’ultima volta che l’ho vista.

In L’ultima volta che l’ho vista il lettore avverte anche non è sempre possibile riscattarsi, che quando si cade non è sempre facile rialzarsi: è questo il messaggio del tuo romanzo?
Sì, direi che esprime molto bene la mia visione del mondo. Molti romanzi esprimono messaggi positivi. Che si cade, sì, ma ci si può sempre rialzare, basta impegnarsi. Io sono invece fondamentalmente pessimista: la vita può anche condurti alla disperazione più nera, senza possibilità di salvezza, senza redenzione.

Una curiosità personale. L’ultima volta che l’ho vista incomincia con un incubo abbastanza universale: trovarsi intrappolati, perduti e dimenticati: è questa la tua paura più grande? Se non lo è, cos’è che temi di più nella vita?
L’esperienza vissuta da Vanessa nel libro è terrificante: rapita, segregata e abbandonata al proprio destino. Una situazione di disperazione totale. Io credo che a ognuno di noi capiti di prefigurarsi scenari al limite, di «worst case». Anche a me, ma diciamo che la mia paura prevalente non è quella di finire rinchiusa in qualche posto isolato, bensì quella di contrarre una malattia invalidante e non curabile, di trovarmi in balia di medici e ospedali. Finché sono in salute posso affrontare qualunque cosa, ma la malattia rende impotenti. A causa di una malattia incurabile ho perso da poco mia sorella, che è sempre stata la mia confidente, è sempre stata una parte di me. E nei sei anni precedenti la sua morte, l’ho accompagnata in questo suo viaggio in una malattia che l’ha letteralmente torturata: per questo so fin troppo bene ciò di cui parlo.

Tu sei tedesca, ma sei innamorata dell’Inghilterra. Non solo: hai dimostrato di essere in grado di descrivere alla perfezione paesaggi e atmosfere tipicamente inglesi. Come ci riesci?
Sono stata in Inghilterra per la prima volta a tredici anni, per le vacanze estive, e da allora ho sempre pensato di essere nata in Germania per errore, e che la mia vera patria fosse l’Inghilterra. Ancora oggi, quando incomincio a intravedere le scogliere di Dover mi sento a casa. Per me non è difficile conservare nella mia memoria i paesaggi, le architetture, le persone a cui sono così legata… e poi restituirli nei miei libri.

Famiglia e scrittura: come si possono conciliare? E cosa fai nel tempo libero (se ne rimane)?
Scrivere è esattamente come qualsiasi altro lavoro in relazione alla famiglia: se ci si organizza bene, allora tutto funziona bene. Le cose si fanno difficili quando si tratta di affrontare una situazione imprevista. Quando tuo figlio si ammala e non può andare a scuola, proprio mentre stai scrivendo la scena clou del libro e sei in ritardo con la consegna. E tipicamente in quei momenti si verificano ulteriori problemi: tuo marito deve partire all’improvviso per un viaggio di lavoro all’estero, bisogna portare il cane dal veterinario, ti arriva una raccomandata del Ministero delle Finanze che ti avvisa che non hai ancora consegnato la dichiarazione dei redditi... Ecco, in situazioni simili mi rendo conto di non essere particolarmente resistente e con i nervi saldi. Nei giorni normali, incomincio a lavorare alle otto di mattina e smetto alle quattro del pomeriggio, quando mia figlia torna da scuola. Per me quelle sono le ore «sacre» in cui spesso non rispondo nemmeno al telefono per non perdere tempo prezioso. Nel tempo che mi avanza mi dedico al mio «secondo lavoro» con i cani: accolgo cani anziani, randagi senza padrone e collaboro con associazioni cinofile che si occupano soprattutto di cercare una nuova casa agli animali provenienti dai paesi dell’Est che vengono abbandonati. Partecipo anche a un progetto per la sterilizzazione degli animali randagi per cercare di  limitare l’aumento impressionante di bestiole che vivono in condizioni miserevoli. Purtroppo spesso c’è un problema di tempo. Però tutti i giorni io mi accorgo che il destino di tanti animali è segnato e per questo tento di aiutarli e trovare una soluzione. Sarebbe bello se tutti guardassero agli animali come esseri viventi in grado di soffrire invece di trattarli senza alcun riguardo.

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