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Intervista a Chiara Frugoni

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Non si trovano, proprio non ci sono. Le donne, intendo. Le donne nei libri di storia. Certo tutti ricordiamo qualche imperatrice o regina particolarmente famosa - come Maria Teresa D’Austria, Caterina de Medici - o qualche nome indimenticabile come quelli di Giovanna D’Arco o Ipazia, ma le donne nella quotidianità del racconto storico sono assenti. Come se questa metà del mondo non avesse mai partecipato alla vita del passato e allo svolgersi degli eventi. Eppure non è così, come mostra l’ultimo libro della storica medievista Chiara Frugoni, che racconta finalmente cosa volesse dire essere donna nel Medioevo e dando voce e vita a cinque donne straordinarie: Radegonda, la (mai esistita) papessa Giovanna, Matilde di Canossa, Christine de Pizan e Margherita Datini. Avrei voluto sapere di più di queste cinque donne e di questo libro con la professoressa Frugoni a Pisa, dove lei vive, e invece ci siamo dovute accontentare di una chiacchierata su Zoom.



Quando non saranno più necessari libri sulle donne? È possibile che ancora oggi si studi e insegni una Storia senza donne?
Purtroppo sì, ancora oggi la donna non viene presa a parte della narrazione e questo fatto è stato notato e fatto notare da tempo. Una citazione che riporto spesso viene da Jane Austen, da L’abbazia di Northanger, in cui due dame che passeggiano parlano e una delle due confessa di non amare la Storia, di trovarla noiosa, un racconto inventato in cui ci sono solo uomini “buoni a nulla, e praticamente nessuna donna”. Già allora dunque si osservava come delle donne nella Storia non si parla mai. Sparse e sporadiche si trovano storie di donne che però poi si perdono e non arrivano al racconto collettivo, e per questo io ho voluto riunirne alcune in questo volume, Donne medievali. Sole, indomite, avventurose: non tutte perché poi sarebbe emerso un racconto troppo superficiale, ma un campione esemplificativo della vita delle donne nel Medioevo. Ho scelto per esempio di includere la storia della Papessa Giovanna, mai esistita, per fare vedere quanto anche i miti e le leggende siano stati importantissimi nel plasmare l’idea delle donne che poi ci siamo portati dietro fino a oggi. È da allora infatti ci accompagnano concezioni che ancora riguardano la donna nella nostra società come il messaggio, molto propagandato dai media, che la donna debba sempre piacere all’uomo.

Nel libro ci restituisci l’immagine di una vita molto diversa tra donne in differenti posizioni sociali. In che modo queste vite sono diverse?
In primo luogo la vita di una donna era diversa a seconda di dove nasceva e a cosa fosse destinata. Se era destinata al monastero andava a scuola, quindi imparava a leggere e a scrivere. Poi nel monastero - come appunto dico nel libro - aveva la possibilità esprimere i suoi talenti se ce ne aveva, godeva di una vita più lunga scevra dei rischi legati al parto, non era picchiata, poteva continuare a studiare, era mantenuta: aveva “una stanza per sé e una piccola rendita”, come raccomandava Virginia Woolf. Se invece era una donna destinata al matrimonio, la sua era una vita veramente molto pericolosa: veniva sposata molto presto, costretta a cambiare matrimonio molto spesso, rimandata a casa se il marito vedeva la possibilità di un’altra unione più favorevole, di una dote maggiore… era una vita molto incerta, molto instabile. E quindi anche l'immagine che una donna si costruiva di se stessa era molto fragile, cos'era una donna, in fondo? Che cosa si diceva di lei? Che una ragazzina si doveva soltanto preparare a sposarsi, di solito verso i 15 anni, e ad avere una vita abbastanza breve e senza amore. Non c’era l’amore, il matrimonio era solo un’unione di sessi. Essere preparate al matrimonio voleva dire essere preparate all'infelicità: le donne venivano date senza essere consultate, e quindi una si ritrovava in un'altra casa, con altre persone, con questo marito, senza che ci fosse stato nessun accordo, o aver previsto se veramente fosse possibile avere un qualche rapporto oltre a quello sessuale. Questo emerge - e a me colpisce molto - anche nel Decameron di Boccaccio dove sembra si raccontino tutti questi grandi amori ma che alla fine quello che conta è l’idea per un uomo di essere riuscito a conquistare una donna, piuttosto che quella di costruire con essa un rapporto. Ecco, un rapporto non c'è. E ci sono invece delle parole, anche nel Boccaccio, molto crude: per esempio parla di un uomo che tiene una donna “a vettura”, cioè come si tengono i cavalli, a vettura, a nolo; è evidente che parla di una prostituta ma chiamarla “a vettura” è un’oggettificazione che sopravvive ancora oggi. Era un po’ diverso per le classi sociali inferiori. Più si scendeva di classe sociale più una ragazza poteva almeno dire se un possibile marito le piacesse o meno, visto che non c’erano in ballo grandi questioni di terre, di dote, di potere. E poi anche la vita insieme, l’unione, era in qualche modo cementata dalle difficoltà. C’era ben presente l’idea di una famiglia: di solito i contadini non cambiavano moglie come gli aristocratici, quindi una volta che si sposavano cercavano di stare insieme, di allevare i figli, di superare le avversità insieme.

Nelle storie che hai scelto di raccontare tuttavia, queste donne riescono a instaurare rapporti anche importanti, forti relazioni…
Forse quella in cui questa idea di rapporto, soprattutto con il marito, è più evidente è la storia di Margherita Datini, che ho scelto per diverse ragioni: perché è non è una monaca - ed è più raro che si abbiano fonti che raccontano storie di laiche - e poi perché abbiamo la sua voce. Infatti esiste un’estesa raccolta di lettere - alcune scritte di sua mano - che Margherita si scambia con il marito lontano. E le lettere che lei scrive senza intermediario sono molto belle e permettono di ricostruire il suo carattere, la sua affettività, soprattutto con la figliastra Ginevra che lei adotta per la quale si rivela una madre molto affettuosa. Nei modi con cui risponde al marito se la rimprovera, nel modo in cui lui le chiede di gestire l’azienda, la casa, emerge un rapporto diretto con il marito, una relazione non solo di letto o di convenienza dovuta a una dote o una parentela. Ci è voluto molto impegno e fatica a capire queste lettere, però le ho lette tutte con grande piacere e attenzione. Margherita Datini forse non era una donna bellissima però era una donna che, tutto sommato, aveva una grande consapevolezza di sé e questo la consolava anche del non potere avere figli, cosa che nel Medioevo era considerata una vera e propria menomazione grave. Non poterne avere mentre invece il marito ne aveva dalle serve, doveva essere un grande dolore; invece dalle sue lettere si vede che Margherita non era una donna infelice, aveva una rete di amicizie, si divertiva, andava alle feste: è una donna che da sé è capace di trarre molti motivi di consolazione e di soddisfazione.

Emerge da questo come da altri tuoi libri un’idea diversa del Medioevo da quella che spesso si ha, ovvero di un periodo “buio”. Quella invece di un periodo vivo, di grandi attività e scoperte…
Intanto è bene ricordare che il termine Medioevo raccoglie mille anni di Storia ed è senz’altro riduttivo pensare di poter raccontare mille anni con un solo aggettivo. Succede di tutto in questi mille anni ed è impossibile paragonare il tempo dei Longobardi - che secondo me è stato veramente un periodo di grande buio, di violenza, di distruzione - al Trecento. E poi, a dir la verità, a me sembra molto più buio o per lo meno non luminoso il secolo scorso con le sue due guerre mondiali, i campi di concentramento, la bomba atomica…Comunque sì, il Medioevo è un periodo ricco di scoperte e invenzioni. Le racconto più approfonditamente in un altro volume: Medioevo sul naso. Il titolo viene dall’idea che tutti quelli che portano gli occhiali hanno un po’ di Medioevo sul naso, perché è quello il periodo in cui sono stati inventati, nel 1280 circa. Sono tantissime le invenzioni che possiamo far risalire al Medioevo e tutte fondamentali, come i bottoni, la forchetta, la pasta, lo stare a tavola, le lettere di cambio, il mulino a vento, tutte le macchine che sfruttavano l'acqua. Ma altrettanto interessante è perché questo sia un periodo di grandi invenzioni: perché è diminuita la schiavitù. Sia in Grecia sia a Roma non c’era questa spinta alle invenzioni pratiche perché c’era abbondanza di braccia umane da sfruttare, e non è che le invenzioni avvengono perché in un certo momento nascono dei geni, ma perché la società impone alcune cose e si devono trovare soluzioni a problemi quotidiani. Per esempio, il mulino, finché c'erano gli schiavi che giravano la macina era perfettamente inutile che andasse a acqua o a vento, poi è diventato indispensabile.

In questo volume, come altri tuoi, le immagini hanno un ruolo centrale: sono fonti, sono contenuti indipendenti e integranti il testo. Quando hai capito il valore delle immagini come fonte storica, e come le utilizzi?
Questo utilizzo delle immagini è cominciato già con la mia tesi di laurea, che era dedicata a uno dei primi temi macabri: L’incontro dei tre vivi e dei tre morti. Tuttavia se devo pensare a da dove viene questa attitudine a usare le immagini come fonte credo di averla ereditata da mio padre. Mio padre ha avuto una vita molto breve, è morto in un incidente d’auto quando avevo trent’anni e devo dire che il rapporto con lui l’ho recuperato più attraverso i suoi libri. Mio padre aveva una grande attenzione per le immagini e si vede anche da alcuni suoi lavori, come uno dedicato all'affresco di Clusone in provincia di Bergamo che raffigura il Trionfo della Morte. Quando l’ha scritto io avevo quindici anni, avevamo una Lambretta, io alla guida e mio padre dietro e andavamo sempre a vedere questi affreschi perché vicino a Clusone, a Solto, c'è la casa dei miei nonni dove son tornata tutte le estati della mia vita. Io allora avevo quindici anni certo, avevo uno sguardo da ragazzina, però ascoltavo le cose che mio padre mi diceva. E poi ancora a tavola mio padre parlava sempre dei suoi lavori e di quello che studiava, ci portava nei musei... quindi devo dire che senz'altro da una parte è da mio padre che è venuta questa attenzione non solo ai testi ma anche alle immagini. E poi io devo molto a questo paese, appunto, Solto, in provincia di Bergamo, che era un paese rimasto per povertà medievale dove io passavo le estati con i miei nonni e soprattutto con una famiglia di contadini a cui sono rimasta legata. Il padre di questa famiglia si chiamava Ernesto Giussani e oltre a essere molto intelligente mi raccontava e mi faceva notare tutta la grande intelligenza che c'era negli attrezzi agricoli o nelle abitudini dei contadini, e mi faceva sempre osservare; per esempio perché c'era un manico fatto in un modo piuttosto che un altro e via dicendo. E questo mi ha portato ad avere un grande spirito di osservazione, attenzione alle piccole cose, a come fabbricarsi i giocattoli con niente. In questo paese erano rimaste poi proprio delle abitudini medievali, per esempio in chiesa gli uomini stavano davanti e le donne dietro e il pulpito era a metà della chiesa. Quando il prete predicava, c'era una ragazza che tirava una tenda tra gli uomini e le donne in modo tale che gli uomini rigirandosi fossero costretti a guardare il pulpito e non le ragazze. C'è un quadro di San Bernardino a Siena, al Museo dell’Opera del Duomo, dove si vede proprio la tenda che divide uomini e donne; oppure a Solto le donne trasportavano l'acqua con un bastone e due secchi uno davanti e uno dietro, e ci sono delle miniature medievali che illustrano proprio questo. Quindi devo dire che queste cose che poi ritrovavo nei libri io le sentivo molto familiari. Anche le storie sacre e religiose, perché me le raccontavano da piccola. Per esempio quando c'era la grandine e suonavano le campane, mia nonna mi mandava in giro per casa con il ramo di ulivo benedetto infuocato per cacciare i demoni, perché secondo la credenza di allora i diavoli si trovano nelle nuvole. Questo lo ha detto Bonaventura, ma io lo sapevo prima di leggerlo che i diavoli stavano nelle nuvole e scatenavano le tempeste. E quindi poi quando mi son ritrovata a fare uno studio molto impegnativo sugli affreschi della Basilica di Assisi, in quello di San Francesco, guardando con attenzione la scena della morte del santo, nella nuvola ho scoperto questo diavolo fatto di nuvole molto bello, con gli occhi chiusi e le corna, che nessuno aveva mai visto e che poi ho capito essere Lucifero.

È difficile trovare le immagini da usare come fonti, esiste una specie di schedario delle immagini?
Esistono degli aiuti, uno è uno schedario che c’è negli Stati Uniti e di cui esiste una copia anche in Vaticano, poco usato tuttavia in Italia, che si chiama Index of Christian Art, dove le immagini sono schedate per soggetto, c’è una brevissima indicazione del contenuto dell’immagine e un rimando a una fotocopia. Naturalmente bisogna saper cosa cercare. Per esempio, quando ho fatto il lavoro su Alessandro Magno che sale in cielo sui grifoni, sotto “Ascensione di Alessandro Magno” ce ne erano catalogate diverse. Questo quindi per me, soprattutto quando ero più giovane, era un punto di riferimento. Poi adesso effettivamente c'è Internet dove sempre a saper cercare, si trovano delle immagini. Tuttavia quello che è fondamentale è guardare molti libri e memorizzare; io non ho una biblioteca di immagini ma molte le conservo nella testa. Naturalmente bisogna avere pazienza, guardare le immagini, capirle: ci vuole molto tempo e molta capacità di memorizzare. Ma è fondamentale perché nelle immagini si trovano informazioni che mancano invece nei testi, per esempio il significato dei gesti, oppure informazioni sulla vita pratica, sulla vita quotidiana: cosa si mangiava, come si dormiva, come si stava a tavola; tutto questo è molto difficile trovarlo nei testi.

Immagini e voci di donne restituiscono storie che fanno riflettere, personaggi con cui si vorrebbero avere conversazioni reali, ma c’è altro che vorresti arrivasse e restasse dopo la lettura di questo libro?
È stato un libro che mi ha appassionato e divertito però anche molto coinvolto perché continuamente sentivo quanto di Medioevo ci portiamo dietro. Ho scritto questo libro per dare voce a delle donne, per far sentire la loro voce non trasmessa sempre da quella di un uomo e far sì che dopo aver letto questo libro si possa avere un'idea diversa di sé. L'ho scritto pensando anche che se le ragazze e le ragazzine lo leggessero, rifletterebbero un po' su questa spinta che ancora c'è fortissima nel proporsi sempre come un oggetto di piacere per un altro. Ancora oggi una ragazza, ma anche una donna, si sente fondata in un'altra persona: se piace, se non piace, se ha successo; da qui la necessità di truccarsi, per esempio, di pensare ai vestiti, il dramma del proprio corpo se non è come la moda impone. E questo io lo considero un delitto perché fa appassire tutti i talenti che io penso tantissime ragazzine potrebbero esprimere in un altro modo, anche con maggiore felicità. Naturalmente è un obiettivo ambizioso, non so fino a che punto io ci sia riuscita, ma l'idea era quella di spingere soprattutto le ragazze più giovani ad avere uno sguardo sugli altri piuttosto che uno concentrato su sé stesse. Per questo vorrei che questo libro entrasse nelle scuole, per le ragazze certo, ma anche per i ragazzi perché se non cambiano idea anche i ragazzi siamo sempre allo stesso punto.

I LIBRI DI CHIARA FRUGONI