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Intervista a Christian Raimo

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Quello con Christian è un appuntamento a lungo rimandato. Per colpa mia, sia chiaro. Accade abbastanza di rado nel nostro ambiente che a uno scrittore venga richiesta un’intervista a mesi di distanza dall’uscita del suo ultimo libro - e la cosa non è priva di logica, a pensarci bene. A mia parziale scusante va sottolineato che dietro alla mia richiesta fuori sincrono c’è una storia di sangue, bile e anestetico con la quale ora non vi tedio. Appena il fato me lo ha permesso, ho subito chiesto a Christian di ragionare assieme sulla sua scrittura. Ma anche sui lit-blog, sulla narrativa di genere, sull’infelicità. Non necessariamente in quest’ordine.




Al mondo ci sono davvero “le persone, solamente le persone”, come ha lasciato scritto il cugino di Cecilia nella sua lettera d’addio che riproduci in epigrafe al tuo libro di racconti dal titolo quasi uguale? È una epifania che fa crescere, una delusione spaccasogni o una finestra aperta su un abisso che resta comunque insondabile?
Quel pezzo che metto all'inizio come epigrafe è una citazione di una lettera reale di un uomo che si è suicidato. Ed era importante per me per due motivi: il primo è che in fondo tutto quello che scriviamo è in parte una lettera d'addio. Che sia il ringraziamento per la vita che abbiamo o appunto un biglietto lasciato prima di spararsi un colpo alla testa. In quel caso questa persona non aveva lasciato soltanto un biglietto, ma aveva ragionato su un gesto così forte come quello del suicidio. E per dirla con Camus, esiste un problema filosofico che viene prima di tutti gli altri che è quello del suicidio, se la vita valga la pena o no di essere vissuta. In quella frase che cito, c'è un pezzo prima che mi aveva colpito: “Da piccoli dovrebbero dirci che non esistono le fate, i maghi, gli esseri immaginari”. Non la prenderei alla lettera: anche perché penso sia fondamentale che un bambino sia cresciuto in un mondo incantato. Ma come un monito a non perdersi nella dimensione immaginaria. Oggi può capitare molto spesso di usare la dimensione immaginaria come un oggetto transazionale dal quale non ci si separa, e che non ci aiuta ad avere rapporti con gli altri. Per questo era per me fondamentale invece recuperare sulla pagina la dimensione del corpo.

Alcuni dei racconti di Le persone, soltanto le persone erano già apparsi qua e là. Perché la scelta di raccoglierli in un’antologia proprio ora? E in questi casi come si governa l’inevitabile eterogeneità?
Amo gli scrittori di talento, ovviamente, ma soprattutto amo gli scrittori che esercitano la propria bravura mettendo in mostra una gran libertà nel farlo. Le raccolte di racconti per me fondamentali mettono a valore questa libertà. Ti faccio un esempio per tutti, Brevi interviste con uomini schifosi di David Foster Wallace. È un libro che probabilmente non avrebbe scritto se non avesse avuto una borsa dalla MacArthur Foundation, che gli toglieva il problema di dover fare un libro che rientrava in dei canoni di vendibilità per una casa editrice. E invece quel libro lì non è importante che piaccia o meno – a me ovviamente piace tantissimo – ma è fondamentale il modo in cui fa vedere dove si può spingere la letteratura oggi. Racconti di poche righe, racconti con le note, dialoghi senza uno che parla: quello che chiamiamo sperimentare non è altro che esplorare. E credo che esplorare sia indispensabile se uno vuole scrivere. Non credo di averti risposto direttamente, ma spero di averlo fatto indirettamente. Come corollario ti cito libri di racconti che per me hanno questa stessa qualità: i libri di Donald Barthelme, quelli di Alice Munro, le raccolte di racconti di Bolaño, i meravigliosi racconti di David Means, le raccolte di racconti di George Saunders, quelle di Rick Moody...

Da lettore deliziato dal racconto “Calvino contro Pasolini” ti domando: ti piacerebbe scrivere un intero romanzo ambientato in quella Italia alternativa? E da giornalista già che ci sono aggiungo: cosa pensi dei romanzi di genere (o che almeno contengono elementi di genere, come potrebbe essere questo)? Non ti stuzzica l’idea di scriverne uno?
Non so se mi piacerebbe scrivere un’intera ucronia letteraria. Dovrei avere un’idea forte, come per esempio quella della Letteratura nazista in America. Ma penso che mi piace moltissimo giocare con i generi della narrativa distopica, dell’autofiction, della metanarrativa, provando a fare il punk piuttosto che il letterato erudito. Questa libertà me l’ha insegnata davvero Roberto Bolaño. E credo sia una libertà ancora poco esercitata in Italia. La scuola emiliana, Ermanno Cavazzoni, Paolo Nori sono dei modelli per me, ma appunto quella capacità della letteratura di mangiarsi tutto e di vomitarlo in un altro modo e di fare di questo vomito una letteratura ancora migliore in Italia è vista come dissacrazione. Ecco io penso invece che non c’è rito sacro senza digestione. Sui romanzi di genere ti rispondo in maniera più elusiva: leggo poca letteratura di genere, dovrei farlo di più. Credo sia dovuto al fatto che la narrativa di genere è spesso scritta in maniera meno virtuosa di quella che viene definita literary fiction, e io sono un drogato della bella scrittura. Ma appunto è un pregiudizio.

Molti dei protagonisti dei tuoi racconti hanno rapporti diciamo “complessi” con le loro compagne, non dico tutti infelici ma quasi. L’amore è così strutturalmente imperfetto da essere – come minimo – condannato alla malinconia e ai rimpianti?
I miei personaggi sono dei mediocri, forse erano idealisti, ma hanno fatto compromessi, tradiscono, mentono, hanno dimenticato l’idealismo, spesso non stanno bene. Però. Però m’interessava raccontare queste piccole storie, perché penso che sia giusto rendere merito a quelle che io chiamerei “piccole morali”. Se è vero che la Famiglia, lo Stato, la Politica, tutto quel mondo maiuscolo non esiste più, sepolto sotto le ceneri del Novecento, non è che tutto questo ha lasciato un deserto. Ma ha lasciato persone che cercano relazioni, che hanno a cuore l’educazione, che vogliono lasciare delle tracce nel mondo. Insomma intorno a me non c’è un deserto amorale, ma una serie di insediamenti di piccole morali. Per me raccontare la contemporaneità vuol dire raccontare questi insediamenti piuttosto che contemplare le rovine.

La surreale vicenda che racconti ne “Il gioco sbagliato” è accaduta veramente? E – più in generale – quanto c’è di autobiografico in ciò che scrivi?
“Il gioco sbagliato” è un racconto di autofiction. C’è un personaggio che si chiama come me, Christian Raimo, che è e fa molte delle cose che faccio io – lavora a minimum fax, ha 40 anni, vive a Roma, etc. - che mentre sta leggendo un manoscritto per minimum fax proprio si trova di fronte una roba strana: uno dei personaggi di questo libro si chiama Christian Raimo, e ha compiuto un atto brutto. Perché ho scritto questo racconto? Non per provare a cimentarmi con un gioco di specchi tipo quelli Paul Auster o Bret Easton Ellis. Ma perché volevo confrontarmi con una mia rappresentazione. Io sono un maschio e io sono uno scrittore. Queste due qualifiche sono due forme di potere. Proviamo a immaginare di essere dall’altra parte. Proviamo a pensare che qualcun altro scriva la mia storia e che questo qualcun altro sia una donna. Cosa vuol dire ribaltare una narrazione del potere e del potere intellettuale che in genere appunto è maschile? Ci ho provato a scrivere un racconto comico, invece di farne un pamphlet.

Con minima et moralia hai un osservatorio privilegiato sul panorama “web-letterario” italiano. A che punto siamo? Cosa manca ancora per contribuire alla maturazione del sistema complessivo del mercato editoriale?
Mancano i soldi, e gli investimenti. Manca una dimensione istituzionale capace di investire seriamente su tutto ciò che in questi ultimi anni ha fatto con fatica un lavoro di supplenza rispetto alla crisi della scuola e dell'università, e dei giornali e delle case editrici. I blog letterari hanno esercitato una funzione di supplenza nella mediazione e nell’educazione. Non si può fare supplenza per sempre. Ci vuole una istituzionalizzazione.

Come vivi la coabitazione tra il tuo lavoro da insegnante e la scrittura? Sono due vite parallele o ci sono scambi preziosi tra l’uno e l’altro Raimo?
Penso che sarei uno scrittore peggiore se non insegnassi, anche se il tempo che ho per la scrittura è ovviamente molto limitato. Come sarei un intellettuale peggiore e un editor peggiore. Quel confronto generazionale lo immaginerei, non lo vivrei; e me lo figurerei a mia immagine e somiglianza. Andare in classe tutti i giorni vuol dire avere a che fare con persone diverse da te, a cui tradurre un pezzo di mondo. Se questa traduzione è un esercizio che fai solo nella tua testa, è più complicato – parlo per me, eh – riuscire a far sì che sia veramente efficace.

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