
Clare MacKintosh è una donna dagli occhi chiari e dal sorriso dolce, con i tratti inglesi che più inglesi non si può. La incontro in un hotel di Roma in una fredda mattinata, ci sediamo vicino a una grande finestra e iniziamo a chiacchierare piacevolmente. Mi sorprendo più volte a cercare dentro il suo sguardo tranquillo una traccia del suo passato. È stata agente di Polizia per almeno un decennio, ha perso un bambino per colpa di una maledetta meningite, ha mollato tutto per iniziare a scrivere.
Se qualcuno dieci anni fa, quando ancora lavoravi in Polizia, ti avesse detto che saresti diventata una scrittrice, cosa avresti pensato?
Sarei stata deliziata dalla prospettiva ovviamente, perché scrivere è quello che ho sempre desiderato fare nella vita. Il punto è che non lo consideravo un vero lavoro, all’epoca non conoscevo nessuno scrittore, nessun artista, nessun cantante che vivesse di quelle cose. I lavori veri per me erano quelli che la gente faceva negli ospedali, nelle banche, nelle scuole. Scrivere allora era qualcosa che facevo solo per me. Immaginate quindi adesso quanto è sbalorditivo scrivere per lavoro e viaggiare in tutto il mondo grazie a questo lavoro.
Come sfrutti il tuo background in Polizia nella scrittura? È uno strumento in più?
Sì, lo trovo uno strumento utilissimo e lo utilizzo spesso mentre scrivo. Ma devo precisare che non lo uso come ci si aspetterebbe. La gente quando viene a sapere che ho lavorato tanti anni in Polizia pensa che io abbia avuto a che fare con tanti crimini, casi da risolvere, violenze e che io attinga a questo background per il mio mestiere di scrittrice. In realtà essere una poliziotta mi ha insegnato a vedere dentro le persone, a capire come pensano e come agiscono. Mi ha permesso di entrare nei luoghi privati, nelle case della gente: case grandi e piccole, povere e ricche, pulite e luride, squallidi antri di drogati… Tutto materiale di osservazione, è in questo che si tratta di materiale davvero fantastico per la scrittura. In aggiunta a questo, c’è la dimensione psicologica: quando qualcuno rimane vittima di un crimine, ha commesso un crimine o ne è stato testimone, comunque si trova in uno stato di eccezionale vulnerabilità, quindi le sue emozioni sono a fior di pelle, è come se fosse scorticato e quello è il momento in cui – se hai la fortuna di vedere persone in questa condizione – riesci a capire cosa succede dentro di loro, vedi le persone così come veramente sono.
Per esempio nel tuo primo romanzo, Scritto sulla sabbia, hai preso spunto da un reale fatto di cronaca, vero?
È vero, un’automobile aveva investito un bambino uccidendolo e il conducente era fuggito, successe mentre ero in servizio a Oxford. Abbiamo lavorato a quel caso un sacco di tempo e questo mi è servito poi per esplorare nel libro il motivo per cui una persona che commette un atto del genere possa fuggire, e d’altra parte cosa si prova a perdere un affetto così profondo in questo modo e si è costretti letteralmente a dover ricostruire la propria vita.
So tutto di te è particolarmente spaventoso perché la protagonista del romanzo, Zoe, precipita in un incubo molto contemporaneo, legato alla nostra quotidianità, alla nostra routine… Non è la solita indagine per omicidio insomma, non trovi?
Sì, volevo che i lettori riflettessero sulla loro routine quotidiana. Tutti noi siamo abitudinari, tutti ci rifugiamo in una routine rassicurante, è la natura umana: facciamo le stesse cose più o meno nello stesso momento ogni giorno, giorno dopo giorno. Perché? Perché ci fa sentire più sicuri. Ma io volevo far capire ai lettori che più ti senti sicuro, più sei vulnerabile. C’è qualcuno che ti osserva, che può usare la tua routine quotidiana contro di te. Quindi sì, non è una crime story tradizionale, ho voluto aggiungere una dimensione psicologica.
È rischioso dare troppe notizie sulla nostra vita sui social network?
È molto rischioso, secondo me. E tutti noi siamo colpevoli del fatto di dimenticarci o non pensare affatto a quanto sia rischioso. Se stai camminando per strada non ti avvicini al primo sconosciuto che incontri e gli racconti dove abiti, dove lavori, dove vanno a scuola i tuoi figli, cosa ti piace mangiare e dove. Invece sui social network forniamo costantemente a perfetti sconosciuti un flusso di informazioni preziose. Ciò detto, io penso che i social media siano una invenzione meravigliosa, ma bisogna usarli decisamente con maggiore cautela.
So tutto di te diventerà un film? E che attrice ti piacerebbe vedere nella parte di Zoe, che è una donna “normale”, tutt’altro che hollywoodiana?
I diritti cinematografici li abbiamo venduti effettivamente, ma per il momento non ho notizie precise sulla produzione. È difficile però rispondere alla tua domanda perché il casting è una faccenda a cui proprio non penso e non so pensare. Scrivendo il libro o immaginando il film non mi è mai venuta in mente l’immagine di una qualche attrice precisa, Zoe è veramente una donna qualsiasi e secondo me è questa la sua caratteristica più importante, anche perché le storie che riguardano persone comuni mi interessano molto di più come autrice.
La scrittura aiuta a guarire dal dolore?
Non so se scrivere da solo può farci superare il dolore di una perdita, ma di certo ha un valore altamente terapeutico. Il mio primo romanzo toccava vicende molto personali, io come sai ho perduto un bambino circa dieci anni fa e scrivere della morte di un bambino mi ha messo in contatto con le mie emozioni più profonde e mi è stato molto d’aiuto. So tutto di te invece è un libro molto meno personale, nel prossimo conto di tornare a scrivere del dolore. Certo non potrei scrivere di qualcosa che non mi emoziona, e questo per un semplice motivo: lo scrittore vive con la sua storia molto più tempo del lettore. Un lettore vive con un libro il tempo di leggerlo o poco più, uno scrittore passa mesi, anni a scriverlo e non sarebbe possibile farlo se si trattasse di qualcosa che ci lascia freddi.