
Incontrare Colson Whitehead - due premi Pulitzer, uno degli autori più talentuosi e importanti della letteratura statunitense contemporanea - in occasione di una conferenza stampa organizzata da Mondadori per i blogger italiani è un onore, oltre che un piacere. In attesa di vederci per un barbecue e una birra (mi ha invitato lui, giuro!) ascoltiamo cosa ha da dirci. E sono tante cose.
Perché è così frequente in letteratura la visione di Harlem come un luogo di degrado, crimine, tensioni?
Certo che c’è un altro modo possibile di descrivere, raccontare Harlem. Harlem è un quartiere di New York molto dinamico, che ha sicuramente una componente di criminalità - anche se a dire il vero negli ultimi anni i tassi di reati sono diminuiti sensibilmente, laggiù - ma in cui la maggioranza delle persone vive vite normalissime. Vanno a scuola, al lavoro e così via. Ma questo appunto è normale, e quindi forse meno interessante da raccontare. Io con Il ritmo di Harlem ho scritto una sorta di noir, un heist novel, quindi ovvio che - come in altri libri o film - mi sia soffermato su aspetti tutto sommato negativi di Harlem.
Sei uno scrittore che utilizza i generi, non uno scrittore di genere. Come scegli le idee per i tuoi romanzi? Voglio dire, parti da una storia e poi trovi un genere in cui incastrarla o viceversa?
Il modo di raccontare una storia arriva solo in un secondo momento. Penso al genere, all’ambientazione, se scriverò in prima o in terza persona, al tempo passato o al presente solo dopo. Prima viene l’ispirazione, l’idea. Che poi viene fuori abbastanza semplicemente: sarebbe divertente scrivere un romanzo su di un uomo qualunque che decide di progettare un grande colpo criminale? Sarebbe divertente scrivere un libro sulle ferrovie? Parto da questo e mi chiedo se posso farlo. Certo che posso farlo, la mia risposta è sempre sì. Tutti i generi letterari hanno una loro dignità e io adoro del mio lavoro il fatto che mi dà la possibilità di esplorare tutti i generi che voglio. Per il momento per esempio non mi è mai venuto in mente di scrivere un romance, ma domani chissà?
Sia ne I ragazzi della Nichel che ne Il ritmo di Harlem troviamo dei protagonisti che vivono dei profondi conflitti morali, interiori o no. È un aspetto che ti affascina particolarmente o uno strumento che usi per raccontare la complessità dell’essere umani?
Non mi sento un autore che è alle prese con il conflitto morale in sé nelle sue opere. Sì, certo, mi occupo di problemi che devono essere risolti, mi occupo di persone. Ne I ragazzi della Nichel ce ne sono due in particolare che sono tipi di persone opposti: l’ottimista e il pessimista, quello che pensa che sia possibile cambiare l’ordine sociale e quello che si accontenta di vivere alla giornata. Diversa è la situazione ne Il ritmo di Harlem: qui abbiamo un uomo per certi versi opaco, che cerca di trovare la sua strada e restare a galla in un mondo che lo penalizza per il colore della sua pelle e per la sua posizione sociale. Da una parte una situazione chiara, con due personaggi diversi, chiaramente diversi. Dall’altra un uomo che riconosce la sua caduta morale, che ci ragiona su, ma che io ho cercato di raffigurare nella sua quotidiana umanità.
Perché proprio la Harlem a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta?
Scrivere romanzi ambientati negli anni in cui si sono verificati eventi storici significativi è sempre una bella sfida ma è ovviamente anche molto affascinante, per me e per i lettori. Il luogo l’ho scelto subito, doveva essere New York. In che periodo però ambientare un heist novel? Ne ho presi in esami diversi, a dire la verità. Dapprima ho pensato al terrificante blackout del 1977, poi alle rivolte del 1943 - che però erano state già usate da Ralph Ellison - infine alla rivolta di Harlem del 1964. In quel momento, un pezzettino alla volta, ho inziato a scrivere la storia, che parte dal 1959 e arriva appunto al 1964.
Eventi storici reali ma anche eventi immaginari, persino ingredienti fantastici: come convivono nella tua scrittura?
Sia il reale sia l’immaginario sono strumenti. Sono modi diversi, lo ammetto, ma due modi ugualmente usati per raccontare il mondo.
Qualche anno fa in un’intervista ti è stato chiesto quale film rappresentasse meglio gli Stati Uniti di oggi e tu hai risposto Interceptor. Dopo l’assalto a Capitol Hill la tua risposta è parsa quasi profetica...
Penso che gli Stati Uniti abbiano deragliato dai binari da un bel pezzo. Non servivano doti profetiche, bastava semplicemente guardarsi attorno: cortei di neonazisti, violenza e sparatorie ovunque, una società frammentata e schizofrenica. E questo già almeno da un decennio.
Non hai certo paura dei generi letterari, come dicevamo. Cosa pensi degli snob che invece schifano la narrativa di genere e dividono la letteratura in alta e bassa?
Di solito chi fa questo tipo di distinzioni è una persona dalle letture limitate. Lo snob, l’elitario è un relitto del passato. Le cose sono ormai molto cambiate, nel mondo dei libri. In America la distinzione tra letteratura alta e letteratura di genere ormai è finita, a nessuno interessa più. Cormac McCarthy ne La strada racconta una storia da fantascienza post-apocalittica, Toni Morrison in Amatissima ci mette un fantasma, Philip Roth ne Il complotto contro l’America esplora una Storia alternativa degli Stati Uniti. Genere? O Letteratura alta? Facciamola finita. Non li inviteremo ai nostri barbecue dove facciamo costarelle di maiale alla griglia e ci beviamo una birra ghiacciata, questi snob: loro resteranno nei loro salotti con un calice di vino.
Cosa pensi della serie tv tratta da La ferrovia sotterranea?
È una delle cose più belle che mi siano mai capitate nella vita. Barry Jenkins e il suo team hanno fatto un lavoro meraviglioso, di grande talento e sensibilità. L’unica cosa che mi rattrista è aver capito che io non avrei mai saputo fare un lavoro così ben fatto: sono certo anzi che se avessi scritto io l’adattamento per la televisione del romanzo avrei fatto una schifezza. A quella miniserie hanno lavorato cento persone per tre anni. Credimi, non riesco a immaginare una versione migliore del mio romanzo.
L’esperienza del lockdown ha cambiato qualcosa dal punto di vista del tuo lavoro da scrittore e dal punto di vista umano?
Devo dire che sono stato abbastanza fortunato. Mia figlia seguiva regolarmente le lezioni su Zoom, mio figlio pure, mia moglie e io abbiamo potuto lavorare da casa e quindi tutto tranquillo. Anzi, il lockdown è stato un periodo molto creativo per me: ho terminato la stesura Il ritmo di Harlem a maggio 2020 e poi ho addirittura iniziato a scrivere il sequel, di seguito. Dover stare chiusi in casa per me in fondo è stata una coincidenza fortunata, perché mi ha concesso di poter fare un doppio turno di lavoro. Nel senso che prima avevo l’abitudine di fermarmi verso le tre del pomeriggio, ma durante il lockdown cosa avrei potuto fare? Scrivevo ancora, tra me e me pensavo: siamo tutti a rischio, meglio finire di scrivere tutto quello che devo scrivere prima che sia troppo tardi!
La questione razziale è sicuramente un nodo centrale. Secondo te è proprio un argomento imprescindibile, ineludibile per uno scrittore afroamericano?
Ho scritto libri che affrontano tematiche razziali ma anche libri che non li affrontano proprio per niente. Mi rendo conto che forse nella testa di qualcuno c’è l’aspettativa che uno scrittore o una scrittrice afroamericana debbano sempre rivolgersi a queste tematiche, ma per me il significato di scrivere è proprio un altro: ho un’idea, ho un progetto, cerco di fare il mio meglio per portarlo sulla carta, sulla pagina scritta. Punto. Ho scritto del campionato mondiale di poker, ho scritto dello Zambia, ho scritto di tante cose. C’è stato un tempo in cui gli scrittori afroamericani erano veramente pochi: Richard Wright, Ralph Ellison, James Baldwin... era un po’ come se quei pochi scrivessero a nome di tutti i neri. Ma oggi non è più così. Oggi ci sono medici neri, insegnanti neri, ci sono persino gli astronauti neri! E ci sono gli scrittori neri, i poeti neri. Se io volessi scrivere - che so - una biografia di Benjamin Franklin non dovrei mica chiedere il permesso a nessuno... Uno scrittore afroamericano non deve per forza occuparsi della questione razziale né per forza scrivere libri in cui i protagonisti sono neri: se c’è qualcuno che pensa che sia doveroso farlo questo non sono io. Ma forse questa idea alberga nella mente di qualche critico di pelle bianca che è convinto di sapere cosa debbono scrivere i neri.
Qual è la tua New York, la New York di Colson Whitehead?
Se dovessi mai pronunciarmi in via definitiva su New York avrei chiuso, potrei andare a casa. Quindi non lo faccio. Cerco invece di raccontare New York, ma lo faccio in modo diverso ogni volta. Ne ho scritto con una non fiction, in forma allegorica ne L’intuizionista, in forma realistica... Quando ho scritto Il colosso di New York ero molto in ansia: Oddio, adesso scrivo della città di cui hanno scritto dei grandi, grandissimi come Hermann Melville, Walt Whitman e io piccolino che figura farò rispetto a questi a questi titani? Ora quest’ansia mi è passata. Che io scriva di New York, di schiavitù oppure di guerra so che tanto c’è già stato qualcuno che l’ha fatto meglio di me e quindi non mi preoccupo più. Cerco solo di fare il mio lavoro al meglio possibile. Sono sempre alla ricerca della mia New York, spero però di non trovarla mai.