
E’ giovane. Lo si intuisce guardando il suo volto e scorgendo la luce vivace dei suoi occhi. Chissà come mai allora non ama dire l’età. Daniela si definisce una persona schiva, in apparenza diffidente. In realtà, prima di “lasciarsi andare” – ammette - vuole capire chi ha di fronte. Stavolta, in uno dei locali dell’Associazione Officine Visive di Tolmezzo, cui collabora, coltivando la passione per la cultura video cinematografica, le è capitata sotto il naso la sottoscritta, una curiosa intervistatrice che desidera domandarle qualche perché circa la sua sua scrittura. Ecco qui, allora, le risposte gentili e generose, attente e sensibili che ha voluto concedere ai nostri golosi mangialibri.
Se analizziamo i tuoi interessi, scopriamo una specie di fil rouge: l’amore per gli audiovisivi nell’Associazione di cui fai parte; la tua collaborazione con il periodico Perimmagine, nato in memoria di Tina Modotti; infine la tua attività in ambito museale… Una serie di “indizi” che ci fanno pensare a una tua propensione per la storia, intesa come recupero delle radici, ma anche come necessità di riunire tasselli di voci lontane nel tempo. Il sole negli occhi in fin dei conti “ritorna” in questa visione, affiancandosi ad una attenta introspezione in chiave psicologica. Quanto c’è di te nel tuo primo romanzo?
Il fil-rouge che unisce i miei interessi, le mie attività e i miei scritti è senza dubbio il desiderio profondo di comprendere, per quanto ci sia dato, i raffinati meccanismi che regolano le nostre esistenze. Come tutti, cerco delle risposte. Per questo ho bisogno di “fermare” le immagini e le situazioni: per osservarle con comodo, per godere di quelle sfumature nelle quali forse si nasconde il senso profondo di alcuni momenti della nostra vita. Il mio strumento principale è la scrittura, ma mi interessano anche la fotografia, gli audiovisivi – in particolare l’intervista – e la museologia. Per rispondere alla domanda, quindi, c’è molto di me nell’introspezione, nel desiderio della voce narrante di comprendere gli eventi della propria esistenza, quando sembra che la vita sfugga al nostro controllo.
Nella recensione scritta per Mangialibri abbiamo, non a caso, parlato di “giallo psicologico”. Vuoi raccontare ai nostri lettori come ti è sorta l’idea di questa storia e in che cosa si può differenziare rispetto ai numerosi romanzi che trattano semplicemente il tema della fine di un amore?
Si differenzia perché il tema non è la fine dell’amore, ma bensì uno degli effetti secondari della fine di un amore: la necessità che emerge di accomiatarsi dai sogni condivisi all’interno della relazione.
Il bivio davanti a una scelta, la realtà contro l’immaginazione, un’intera esistenza edificata su un ammasso di “se” ipotetici: chi è veramente Ariele? In che misura la scrittura aiuta lei (e magari te) a ricomporre i brandelli perduti nella memoria?
Ariele è una donna complessa, ma del tutto normale. Una sua fragilità l’ha spezzata, ad un certo punto della sua esistenza: per andare avanti lei ha trovato una sua via, una modalità che di fatto però ha impedito la vera elaborazione di quanto accaduto. Il romanzo comincia nel momento in cui, venticinque anni dopo, un evento drammatico la costringe ad affrontare quanto accantonato. Sia per Ariele che per me la scrittura è una lente attraverso la quale filtrare l’esistenza, comprenderla e talvolta allontanarla per non farsene sovrastare.
La letteratura femminile in Italia: ora che ne fai parte, puoi darci una tua opinione in merito? Quali sono le tue autrici preferite e quale contributo credi che lo “scrivere donna” possa offrire al nostro attuale panorama librario?
Mi sento più a mio agio nel parlare di letteratura internazionale, confesso: per formazione e per mancanza di filtri tra genere e nazionalità, leggo molta letteratura straniera, il più delle volte tradotta, per pigrizia, oppure in lingua originale. Posso dire, tuttavia, di avere la sensazione che il panorama contemporaneo della letteratura femminile italiana sia estremamente variegato, con un numero di autrici valide che si esprimono con linguaggi differenti e talvolta forse non degnamente valorizzato. Amo alcuni filoni che penso, tuttavia, talvolta siano abusati. Ad esempio quello che definisco “racconto tramandato di generazione in generazione per via femminile, ambientato in una località amena o suggestiva”: accanto a risultati emozionanti vi sono, a mio parere, romanzi che calcano percorsi facili, ma non emozionano molto. Sono curiosa nei confronti delle autrici con qualche anno meno di me, perché penso per loro sia più difficile: chi ha venticinque anni oggi non è cresciuto in un background molto fertile, purtroppo, quindi trovare dei romanzi interessanti, consapevoli, da parte delle più giovani è sempre una buona notizia. Dal punto di vista della promozione, infine, mi sembra che in Italia si dia troppo spazio allo scritto del personaggio più o meno popolare, secondo l’idea che le vendite regolino l’offerta e non che al pubblico vada offerta un’opportunità diversa. Quando si parla di letteratura con un minimo di spessore, si parla di solito di un autore di sesso maschile, forse perché ad esempio l’indagine dei sentimenti sembra ancora un tema tipicamente femminile e forse anche di serie B. Chi pensa così dovrebbe forse leggere gli autori – uomini – dell’area israeliana, per fare solo un esempio.
Una curiosità per i nostri lettori aspiranti scrittori: come hai fatto a pubblicare il tuo libro? Raccontaci, se ti va, l’iter che hai seguito.
Mi sono iscritta ad un festival di letteratura al femminile, con molti dubbi e con il timore di sentirmi inadeguata, che si svolge ogni anno a Matera. Nel corso del congresso, che prevede anche dei momenti formativi e delle interessanti conferenze sia sulla tecnica di scrittura di alcuni temi che sul mondo editoriale, era possibile presentare brevemente le proprie proposte a degli editor. Così ho fatto, sempre con molti timori, ed è andata bene. Nel giro di poche settimane sono stata richiamata da quella che è divenuta la mia editor alla TEA.
I libri di Daniela De Prato